L’Italia ha ospitato in questi giorni una conferenza internazionale sulle migrazioni alla presenza di Capi di Stato e Primi Ministri. Il nostro Paese può certamente giocare un ruolo strategico nel Mediterraneo e nel rapporto con l’Africa, e valuteremo se questi incontri riusciranno a determinare un cambio di passo in grado di investire realmente sulla cooperazione internazionale e sullo sviluppo reciproco. Questo è il ruolo dei governi, ma anche i cittadini e il terzo settore possono essere determinanti nella costruzione dal basso di questi processi. Sicuramente per me, giovane studentessa, l’esperienza con i Comboniani in Africa è stata una opportunità. Ho messo a disposizione le mie competenze, e ho ricevuto in cambio tanto di più.

Sin da piccola ho sempre sentito racconti in famiglia sulle missioni in Africa, che mi hanno incuriosita al punto di voler conoscere personalmente quel mondo così diverso dal mio. A 12 anni, quando mio fratello appena diciottenne è partito per vivere un’esperienza in Etiopia, ho iniziato a pensare concretamente di voler partire anch’io, ma a causa dell’età sono rimasta a casa fino a considerare il mio sogno come un’impresa troppo lontana da realizzare. L’anno scorso dopo il diploma, per una settimana mi sono concentrata unicamente su come avrei potuto continuare il mio percorso di studi, finendo per ripescare dal cassetto quel sogno che avevo riposto con cura tempo prima. Con mia grande sorpresa, ma anche perplessità, la mia proposta è stata accettata sia dai miei genitori che dalla congregazione delle Suore Comboniane che da anni operano nel campo medico e scolastico in vari Paesi del mondo.

Sono partita il 9 novembre 2022, da Milano. Una volta sull’aereo ho iniziato a realizzare ciò che stavo facendo: partire, da sola, a 19 anni, arrivare in un Paese che non conoscevo, senza sapere ciò che avrei fatto, chi avrei incontrato. Arrivata nella casa provinciale di Addis Abeba, mi proposero di dividere la mia esperienza in due missioni: i primi mesi ad Harowato (nell’Oromia), gli altri a Mandura (nel Benishangul-Gumuz). Lavoravo nella scuola gestita dalle suore, in un paese poco lontano da casa nostra, dove sono presenti tre classi dell’asilo e otto della scuola primaria. Io mi sono concentrata sulle classi dell’asilo, soprattutto su quella dei più piccoli, che avevano dai 4 ai 5 anni. Erano 54 bambini, per una sola classe! Il mio compito iniziale era quello di assistere i maestri nel controllo della classe e nell’aiuto per la correzione di ciò che dovevano ricopiare sui loro quaderni. È stato strano essere per la prima volta dal lato opposto della cattedra. Non ero sicura di ciò che stavo facendo, però ho trovato in Sr Nora, la direttrice della scuola, un’ottima ascoltatrice, amica, mamma, sorella e a volte anche psicologa. Ha riposto molta fiducia in me, tant’è che da gennaio mi ha incaricata di prendere da parte i bambini che avevano più difficoltà nel prestare attenzione alle lezioni, per aiutarli a recuperare nozioni che i loro compagni avevano già acquisito. Dopo poco mi sono spostata a Mandura, la missione di cui avevo più sentito parlare dalla mia famiglia, un luogo molto caldo, non solo per le temperature, ma anche per il temperamento dei nativi.

Recentemente uscita da una guerra civile presente in tutta la regione del Benishangul-Gumuz, la missione di Mandura si sta riprendendo piano piano, partendo dalla riapertura della scuola (sempre gestita dalle suore). Ho avuto modo di conoscere alcuni studenti, poiché ho organizzato una settimana di attività extra-curricolari intrecciando il gioco con lezioni di inglese, arte e musica. Non sono rimasta per più di tre settimane a causa di disordini nazionali, che mi hanno obbligata a trascorrere gli ultimi due mesi rimbalzata tra Addis e Hawassa, la seconda città più grande dopo la capitale.

Ho conosciuto tante persone, tante suore e tanti preti, ma soprattutto tantissimi bambini e studenti. Quando, a metà dell’esperienza, mio fratello mi chiese che cosa mi sarebbe mancato di più una volta tornata a casa, risposi: “I bambini!”. Tornata a casa da alcuni mesi, proprio grazie a quei bambini, ho capito come continuare il mio percorso di studi che mi porterà a occuparmi di educazione. Ho compreso, infatti, il valore dell’istruzione in luoghi dove non ci sono aule per tutti e dove si va a scuola solo se si rientra nel numero massimo di posti disponibili. Ma anche di quanto è importante il volontariato di persone che donano in parte o totalmente la loro vita al presente e al futuro di qualcun altro.

La cooperazione internazionale, centrale per il continuo lavoro di queste comunità, è essenziale per contribuire alla magnifica opportunità di crescita per tutto il pianeta Terra. È quindi molto importante sostenere attività come quelle della congregazione comboniana, di cui sono testimone; per questo motivo invito chi ne ha la possibilità di donare, per contribuire e sostenere le loro missioni.

Serena Ferrari

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