Guardo con sospetto sia alle celebrazioni acritiche sia ai giudizi provvisori, declamati senza scavare sotto la pelle della storia e attingendo alla cronaca. Craxi fu un uomo politico a tutto tondo e uno statista, uno dei protagonisti di un lungo periodo della storia d’Italia e del rinnovamento del socialismo europeo, e come tale va considerato. Relegarlo al biennio 1992/94 è fare un torto all’evidenza.

Commise errori? Sì. Rappresentò con dignità l’Italia nel mondo? Sì. Fu parte di un sistema politico che si era forgiato attorno alla cortina di ferro, dominato in Italia e in Europa dal fattore K, con tutte le conseguenze che per quasi mezzo secolo sono figliate da quella divisione? Sì.

La storia individuale di un leader politico di una nazione centrale nell’ordine postbellico non può essere scissa né dal contesto né dal confronto con ciò che c’era prima e con ciò che viene dopo. Altrimenti si cede alla tirannia degli stereotipi e al posto della memoria collettiva, necessaria alle nazioni per vivere – per vivere, non per sopravvivere – si sostituisce il bignami delle novelle della sera.

C’è addirittura una seconda alternativa, quella tracciata, richiamandosi a Saint Just, l’artefice del Terrore rivoluzionario, da Piercamillo Davigo. Eccola, parola per parola: tra i politici non esistono innocenti, solo colpevoli fino a prova contraria.
Bene. Per lunghi anni siamo stati dunque governati da una classe politica criminale. Dobbiamo a quella classe politica la resurrezione dell’Italia sconfitta in guerra e devastata da una ventennale tirannia e da un tradimento.

Di più: le riforme in nome di libertà ed eguaglianza, la conquista di un benessere diffuso, la vittoria nella lotta al terrorismo, un ruolo importante nello scacchiere internazionale fino a raggiungere il G7. Un’Italia più libera e civile ha un marchio infame, un pantheon dantesco. Se ci accontentiamo della superficialità, abbiamo trovato il modello. Va solo registrato.

E invece, vent’anni dopo, non sono più tollerabili né i silenzi né il gioco di parole fondato sul «ma anche». Qualche esempio? Secondo taluni fu un latitante e non un rifugiato politico, eppure si offrono funerali di Stato e la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro chiede di incontrarlo. Del resto, latitante, nella lingua madre, è colui che si nasconde. Complicato nascondersi quando si ha la casa piena di giornalisti e il telefono non smette mai di squillare.

Eccola la trappola del «ma anche», del «sì, però», del «quasi». Parole che allontanano da un esame di coscienza come si deve, da una confessione piena, semmai passi di lumaca verso una verità sussurrata. Cosicché, chi ha quasi vinto gioca ancora pur non essendoci mai confessato fino in fondo.

Del resto, Craxi, il 3 luglio 1992, spiegò con dovizia di particolari come si finanziavano i partiti. Io c’ero. Non si trattò di un’invocazione alla correità. Tutt’altro, un appello a che ciascuno si assumesse le proprie responsabilità. Questo fu. La riprova? Nel 1984 e nel 1989, con voto unanime, il Parlamento vota l’amnistia per reati di finanziamento illecito. Ben due volte in cinque anni, all’unanimità.