Chissà dove era il 13 luglio del 1994, il giovane Giovanni Toti, mentre il primo governo presieduto da Silvio Berlusconi approvava il “decreto Biondi”. Se fosse stato già giornalista (entrerà due anni dopo come stagista a Mediaset) o comunque in politica, gli sarebbero fischiate le orecchie con ampio anticipo al suono di parole come “custodia cautelare”. Quegli articoli del codice di procedura penale nati e poi uccisi in culla e poi risorti e poi riformati e rimaneggiati che decidono, in Italia unico paese dell’Occidente, la sorte e la libertà dei cittadini prima del processo. Il decreto Biondi era quanto di più laico e lontano dai moralismi, che ancora oggi echeggiano nell’applicazione delle norme processuali, si possa immaginare. La custodia cautelare in carcere – imponeva il decreto – deve essere riservata ai reati più gravi, gli omicidi, le stragi, l’associazione mafiosa. Le fattispecie di reato erano catalogate e suddivise in tre categorie, cui corrispondevano le diverse situazioni di prevenzione: in carcere, agli arresti domiciliari o in libertà, a seconda della gravità del reato e della pena edittale prevista. Quel decreto visse sei giorni, e il governo Berlusconi – anche a causa di quell’iniziativa sulla giustizia – non campò più di sei mesi.

Forse anche con quel decreto Giovanni Toti sarebbe stato ai domiciliari, o forse no. Ma è interessante ricordare quel clima, la forza delle toghe e le timidezze della politica – allora molto più debole di oggi – perché i contenuti e soprattutto i toni irridenti (a tratti violenti) con cui la magistratura genovese, in particolare il tribunale del riesame, stanno trattando il governatore, ricordano molto quel che accadde allora. E sono passati trent’anni. Il Parlamento aveva appena ucciso i suoi figli nel 1993, cancellando quell’immunità che i costituenti avevano voluto a garanzia dell’indipendenza degli eletti. Un atto di sacrificio sull’altare del giustizialismo e del totale arbitrio dei pubblici ministeri. I quali del resto, in particolare quelli del pool di Milano, potevano dire e fare tutto quello che volevano. La custodia cautelare è stato lo strumento principe della loro rivoluzione.

La massima di Borrelli: non li scarceriamo se non parlano

Ricordiamo il procuratore Saverio Borrelli il quale, alle domande dei giornalisti, rispondeva più o meno così: non è vero che noi teniamo in carcere gli indagati per farli confessare, la verità è che noi non li scarceriamo se non parlano. Il numero uno degli investigatori milanesi era lo stesso cui erano bastati trenta secondi in tv per demolire un altro decreto, quello scritto da un galantuomo come il ministro Giovanni Conso, che avrebbe posto fine allo scandalo di tangentopoli con le sue scandalose inchieste. Ma saranno quattro dei suoi ragazzi (Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Tonino Di Petro) a presentarsi a reti unificate, scarmigliati e con gli occhi stanchi e la barba lunga a spiegare che loro senza le manette non potevano lavorare. Minacciarono le dimissioni. Il “decreto Biondi” era il Male, loro erano il Bene. Quello fu il messaggio, che uscì vittorioso. E il provvedimento sulla custodia cautelare fu ucciso in culla. Visse sei giorni. Ma ci sono un paio di particolari che andrebbero ricordati. Il primo: quel decreto scarcerò in tutta Italia 2.750 detenuti, accusati dei reati più disparati, ma solo 43 erano legati a reati contro la pubblica amministrazione. Il secondo: dopo il ritiro del provvedimento, meno del 10% ritornò in carcere, e nessuno per fatti legati a tangentopoli.

30 anni dopo Toti pericoloso perché non cede ai pm

Sono passati trent’anni, e succede che oggi in Liguria ritroviamo un clima che ricorda tanto quello di allora. L’uso della custodia cautelare e i toni moralistici dei pm e dei giudici che pretendono di giudicare la vita e i comportamenti delle persone che sono solo sospettate di aver commesso un reato. La pretesa che Giovanni Toti confessi o almeno si dimetta, perché se non sceglie una di queste due opzioni allora significa che è un soggetto pericoloso il quale – una volta rimesso in libertà – potrebbe ripetere all’infinito lo stesso reato. Un reato, si badi bene, che non è affatto stato accertato in un processo che si sia concluso con una condanna, ma è nulla più che un sospetto, un’ipotesi. Il governatore, hanno scritto i giudici del tribunale del riesame, dimostra – con la sua pervicace dichiarazione della propria innocenza – di non aver capito la gravità dei suoi comportamenti. E più questi fatti, come contributi elettorali tracciati e contratti regolarmente stipulati, vengono definiti da Toti come legali (perché lo sono e nessuno ha dimostrato il contrario) e più questo zuccone di presidente appare come pericoloso.

Cosa non piace alle toghe e al chierichetto Orlando

È il suo stesso stile di vita, radiografato e spiato dalla guardia di finanza al millimetro per quattro anni senza che un solo euro sia stato visto scivolare nelle sue tasche, che viene messo in discussione. Non si è pentito, non è entrato nel confessionale, non ha fatto autodafé. Questo non piace alle toghe e anche al chierichetto spezzino e suo conterraneo Andrea Orlando, che freme perché non ha ancora in tasca la candidatura, e rilascia interviste in cui parla di “disastro morale e politico” in cui sarebbe sprofondata la Regione Liguria. Poi, sempre con il trucchetto di non volersi occupare dell’inchiesta giudiziaria, si lascia scappare che il giudizio del tribunale del riesame “…dice qualcosa di più sulla fondatezza delle misure fin qui assunte”. Sulla custodia cautelare, quindi, parola di un ex ministro Guardasigilli.

Ci sarà in questi giorni un grande affollamento di leader politici in Liguria. Quelli delle opposizioni, che stanno valutando se fare nel caldo di luglio o in seguito, una manifestazione intitolata “dimettiti!”. Nessun dubbio, da sinistra, pur dopo pareri autorevoli sui dubbi di costituzionalità delle procedure di questa inchiesta da parte del presidente emerito della Consulta Sabino Cassese e del professor Giovanni Fiandaca. Il boccone è troppo prelibato, e ci sono – insieme ai magistrati, di cui Il Fatto Quotidiano ci ha spiegato che non sono “toghe rosse”, infatti sono solo casta e cricca – i violini del Secolo XIX che accarezzano tutti i giorni il pelo degli inquirenti e dei giudici. Ma dimissioni all’orizzonte per ora non si vedono. Forse trent’anni non sono passati invano.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.