Sogna il ritorno della democrazia, dopo i tempi “dell’oligarchia predatoria”, Andrea Orlando. Che si sente già candidato a diventare governatore della Liguria non appena Giovanni Toti, con l’aiuto della magistratura, farà il piacere di sgomberare il campo. È vero che il matrimonio di Giovanni Toti con la Regione Liguria finirà con il mandato in corso, il secondo. E chissà se la decisione di rinunciare alla terza candidatura sarà sufficiente a fargli riguadagnare la libertà. E il ritorno al ruolo per il quale l’hanno votato i cittadini. Le ore dell’attesa sono segnate dalle lancette dei giudici del tribunale del riesame che devono decidere in queste ore se scarcerarlo.

Elezioni Liguria, il sogno di Orlando

E da quelle della politica, segnate da una mega intervista di Andrea Orlando alle pagine genovesi di Repubblica. L’ex enfant prodige del Pd spezzino scalda i muscoli in attesa della candidatura. Che per ora non c’è. Si lamenta perché “quando le probabilità erano basse, erano tutti molto convinti della candidatura di Orlando, ora invece molto meno”. E questo è un problema interno al suo partito e al vagheggiato campo largo dello schieramento di sinistra. Certo non giova ad allargare l’orizzonte se si pone come primo punto di programma quella “reindustrializzazione” della Regione che puzza molto di economia assistita e di una visione keynesiana che non piacerebbe a tutto lo schieramento che dovrebbe sostenerlo. Soprattutto se si ha l’ambizione, in vista delle prossime elezioni, di andare in cerca di una parte dei voti di Toti, cioè di quell’area liberale che potrebbe mostrarsi delusa, se non disgustata in seguito all’inchiesta della magistratura.

L’inchiesta Toti e la fiducia a picco per la magistratura

Ma c’è un “ma” grande come l’intero porto di Genova. E lo stesso Orlando ne è consapevole. Perché i cittadini italiani non hanno più la fiducia incontrastata nella magistratura dei tempi di Di Pietro e Mani Pulite. Non c’è stata l’indignazione che qualcuno si aspettava, dopo gli arresti del 7 maggio in Liguria. Forse anche perché nelle tasche di Giovanni Toti non è stato trovato un euro. E nella sua vita non ci sono vacanze milionarie pagate da altri. L’inchiesta traballa, checché ne dicano gli inquirenti e la stessa giudice Paola Faggioni che insiste pervicacemente a sposare la tesi della procura. Che non cambia dal 7 maggio. Toti non può continuare a svolgere il suo ruolo di governatore della Liguria perché potrebbe replicare all’infinito il reato di corruzione, falso e voto di scambio. E anche perché potrebbe spendere il proprio prestigio di presidente per influenzare eventuali testimoni.

I testimoni e Cassese

Ma quali testimoni, dal momento che nei due mesi che separano dal giorno degli arresti, il 7 maggio scorso, mezza Regione è stata già sentita dai magistrati? E il quadro non è cambiato, nonostante gli sforzi quotidiani del Secolo XIX, che scava come la goccia nella roccia, senza esser per ora riuscito a scalfire la sicurezza della difesa, rafforzata da lunedì dell’autorevole contributo del professor Sabino Cassese, presidente emerito della Consulta. Che ha posto qualche seria questione di costituzionalità. Che, si presume, nei prossimi mesi, non riguarderà più il solo caso Toti. Perché l’attenzione va posta anche sul comma tre dell’articolo 289 del codice di procedura penale, che dice non essere consentito interdire l’esercizio “degli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare”.

Trasformare inchiesta giudiziaria in problema di democrazia

Perché sia il prolungamento dell’arresto che le motivazioni che lo determinano rendono Giovanni Toti un “autore” di reato all’infinito. Come se i magistrati avessero qualificato la persona pericolosa in sé, quindi destinata, se ha commesso un certo delitto anche una sola volta, a ripeterlo all’infinito. Questa pervicacia culturale nelle decisioni dei pm e della gip non hanno mostrato però di aver presa sui cittadini. Che sono quelli che andranno a votare, quando ci saranno le prossime elezioni regionali. Nell’intervista a Orlando lo fa notare il giornalista, anche perché ci sarebbe in programma, in questo mese di luglio, una manifestazione a Genova da parte dei partiti di sinistra. “…C’è distacco da parte dell’opinione pubblica – osserva Orlando – ma non dobbiamo rassegnarci a questo e dobbiamo lavorare perché ci sia. Ma non perché vogliamo i forconi sotto casa di Toti, ma perché se non c’è una reazione, larga e popolare, sarà difficile ricostruire qualcosa di diverso e rigenerare una democrazia malata”. Ecco come trasformare un’inchiesta giudiziaria in un problema di democrazia.

Orlando e i forconi

Sempre come se ci fossero gli unni alle porte a minacciare il fortino assediato. Chissà se i bravi magistrati, quelli convinti di essere sempre nel giusto, quelli affezionati alla propria ipotesi iniziale così tanto da non volerla abbandonare neppure davanti all’evidenza di una realtà diversa, si rendono mai conto di suscitare nei cittadini al massimo indifferenza, quando non repulsione per il proprio operato. E se Andrea Orlando, che è stato due volte ministro di giustizia, non ha un po’ di pudore a denunciare proprio la parte dell’inchiesta, quella dell’aggravante di mafia contestata non a Giovanni Toti ma ad altri indagati, come se fosse il problema politico principale. E a dire che “chiedevano voti a persone i cui voti non si dovrebbero prendere”. E questo dopo aver precisato di non voler andare con i forconi sotto la casa di Toti. Ma anche queste parole sono forconi!

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.