Un primo risultato politico l’inchiesta genovese l’ha raggiunto. Il Presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, non si ricandiderà, alla scadenza del settembre 2025. Non è certo che avrebbe potuto farlo, essendo già al secondo mandato, ma una lettura attenta dello statuto regionale aveva messo in conto anche questa possibilità. L’annuncio è stato dato dal difensore del governatore, l’instancabile avvocato Stefano Savi, al termine delle due ore di udienza al tribunale del riesame dove aveva presentato una richiesta di superamento della custodia cautelare ai domiciliari. Corredata anche da un autorevole parere di un presidente emerito della Corte Costituzionale, il professor Sabino Cassese, il quale ha sollecitato il tribunale a “riequilibrare, almeno parzialmente, le esigenze dell’inchiesta a quelle dell’agibilità politica e istituzionale del governatore”.

Un punto giuridicamente sensibile, già valutato in altre occasioni dalla giurisprudenza della stessa Consulta. E che, lo sottolinea l’avvocato Savi, non è stato tenuto in considerazione dalla procura di Genova, che ancora ieri ha ribadito con pervicacia la richiesta che Toti resti in manette domestiche, così come dalla gip Paola Faggioni. E non sarà un caso il fatto che il legale, nel proporre, in subordine alla piena libertà, un obbligo di dimora nel comune di residenza ovvero l’opposto divieto di avvicinarsi alla città di Genova, abbia citato due precedenti casi di palese ingiustizia politica. Si tratta di due vicende del passato, terminate con clamorose assoluzioni. Quello di Mario Oliverio, governatore della Calabria, costretto al confino nel suo paese di residenza da un’inchiesta da cui sarà completamente assolto, e obbligato a chiedere di volta in volta al giudice il permesso per andare a Catanzaro ad esercitare il proprio ruolo amministrativo. O l’altro caso, quello del governatore della Basilicata, Marcello Pittella, con il divieto di dimora nel capoluogo. Sula base della legge Severino in questo caso si attuerebbe la sospensione dell’incarico istituzionale di Presidente.

Se a queste richieste si aggiunge quella specie di “fioretto” che Giovanni Toti è stato costretto a porgere agli inquirenti, quasi fosse in un confessionale iraniano, con cui si è impegnato a “non farlo più”, si coglie l’assurdo di una situazione che appare sempre meno di tipo giudiziario e sempre più somigliante a un duello politico. E si, perché di fronte al fatto che il Governatore della Liguria non è accusato di aver intascato denaro e neanche di aver fruito di quelle “utilità” che leggi moralistiche del nostro codice quantificano e traducono in euro, viene messa in discussione la compatibilità tra amministrare e fare politica. Forse un chiarimento dovrebbe arrivare, a questo punto, dalla stessa Corte Costituzionale. Perché non è consentito “interdire” l’esercizio degli “uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare”. E se la magistratura, prima i pm e poi la gip, dovesse continuare, con un allineamento del tribunale alle ordinanze precedenti, a motivare la custodia cautelare con il pericolo di reiterazione del reato in tutte le successive tornate elettorali, nei fatti sarebbe applicata una forma di interdizione, vietata dalla legge. Ma è evidente che così è stato, almeno fino a ora.

Perché come punto di partenza, dopo quattro anni di indagini, si sono citati quattro casi (nei quali, lo ripetiamo, nessuno ha fermato la presunta commissione di reati) di scadenze elettorali nei quali Toti avrebbe ripetuto lo stesso comportamento, ottenendo da imprenditori contributi per la propria lista. Sono i famosi 74.000 euro versati, in diverse occasioni, dall’imprenditore Aldo Spinelli, regolarmente tracciati. L’accusa ritiene che siano stati il pagamento di qualche favoritismo che l’imprenditore abbia ricevuto in Regione. Senza però dimostrare il nesso di causalità tra quelle liberalità e l’attività amministrativa. Senza contare il fatto che la lista Toti ha ricevuto contributi anche da altri. E nello stesso tempo il fatto che il governatore si è premurato di intervenire per tutelare gli interessi anche di atri che non gli avevano elargito alcunché.

Ma la tesi delle toghe liguri, fino a questo punto senza differenza tra pm e gip, è che Giovanni Toti sia uno che, se ha “peccato” una volta, lo ripeterà per sempre. Infatti nell’ordinanza della giudice che respinge la richiesta di superamento della custodia cautelare, si dice esplicitamente che, qualora liberato, il presidente della Liguria avrebbe potuto farsi corrompere in vista delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno. E in seguito, oltrepassate quelle scadenze, si arriva fino a indicare come pericolose le prossime del settembre 2025. Toti deve quindi restare in manette domestiche fino alla fine del mandato? Non è questa una forma di interdizione dal pubblico ufficio vietata dalla legge? I giudici che in queste ore dovranno decidere anche questioni giuridiche delicate, il presidente del collegio Massimo Cusatti, con Marina Orsini e Luisa Avanzino, dovrebbero anche esplicitare, qualora decidessero di respingere la richiesta dell’avvocato Savi, in che cosa consistano la concretezza e l’attualità del rischio di ripetizione del reato, o di inquinamento di prove ormai ampiamente assunte. O si dovrà aspettare, insieme alla separazione delle carriere, anche la distanza chilometrica, e percorrere quei cinquecento chilometri che separano dalla cassazione, per avere giustizia?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.