Nel Lazio si è aperta la guerra di successione. Nicola Zingaretti corre in posizione vincente per la Camera. Lascia vacante la guida della Regione giallorossa per antonomasia, laboratorio dell’intesa dem-Cinque Stelle che il centrosinistra della Capitale rivendica con orgoglio. Il Pd deve indire le primarie, corrono in tre: Enrico Gasbarra, Daniele Leodori e Alessio D’Amato.

Il primo, nato con la Margherita, è il meno noto sui territori ma il più amato dai vertici. È vicino a Dario Franceschini ma anche a Goffredo Bettini. Ed era molto amico di David Sassoli. Il secondo è il vice presidente della Regione, un regista sempre dietro le quinte che pesca consenso trasversalmente. Il terzo, D’Amato, viene più da sinistra. È stato l’assessore alla sanità che ha portato il Lazio a numeri da record sui vaccini, aprendo e allestendo hub ovunque. Si dice che la disfida tra i tre agguerriti avversari dem sia stata la miccia che ha fatto deflagrare l’ormai famosa cena con Albino Ruberti a Frosinone. Perché Ruberti – nome su cui continua a tacere Zingaretti, di cui Ruberti era stato a lungo capo di gabinetto – sembra fosse in missione per convincere i titubanti dirigenti locali a sostenere, come da indicazioni di scuderia, Gasbarra. Le federazioni del Lazio non ne vogliono sapere. In particolare la zona dei Castelli romani e quella di Frosinone sponsorizzano D’Amato. Altri tengono per Leodori.

La campagna per le primarie, ne sono convinti i dem, finirà per decidere il Governatore. Ed è una campagna che si tinge di giallo adesso che la magistratura contabile mette in esame una pratica risalente al 2005, che non a caso torna oggi sotto la lente giudiziaria. Il procedimento penale si era concluso con il proscigliomento per prescrizione. Ma l’indagine contabile è ancora in piedi, nonostante i fatti contestati risalgano a 18 anni fa. La Procura Regionale del Lazio presso la Corte dei conti, organo a parer nostro dei più superflui per un Paese che soffoca nella burocrazia giudiziaria, non riconosce l’intervenuta estinzione del reato – richiesta dalla difesa – e si incaponisce sui fondi ricevuti fino al 2008 dall’onlus “Fondazione Italia-Amazzonia”. Il sospetto adombrato dalla magistratura contabile è che di quei fondi avrebbe beneficiato D’Amato, con il suo gruppo consiliare “Ambiente e Lavoro”.

I profili di responsabilità? Illecita percezione dei contributi pubblici erogati dalla Regione Lazio per 275.000 euro. Alessio D’Amato, assistito dall’avvocato Angelo Piazza, chiede il rito abbreviato. Non si attribuisce colpe ma vuole risparmiarsi l’agonia del lungo processo. Si propone di versare 82.500 euro, il 30% dell’importo contestato, pur di uscire dal tritacarne giudiziario. La cifra è congruente. E infatti la Procura Regionale esprime parere favorevole. Tutto bene? Eh no. Qualcuno si impunta. Il dossier viene fermato. Il Collegio per ben tre volte la respinge, caso più unico che raro, pur davanti al parere favorevole della Procura. Andando a tutti i costi contro la decisione di merito, per stare in punta di diritto, si viola la norma che prevede proprio nell’interesse dello Stato di incassare anche solo una parte della somma. A presiedere il riottoso Collegio giudicante, il dottor Tommaso Miele. Consiglieri i dottori Massimo Balestrieri e Giovanni Guida.

Il nome di Miele non è nuovo per chi si occupa di politica. Dopo l’elezione di Angelo Buscema alla Corte costituzionale, era lui il favorito per la successione alla presidenza della Corte dei conti. Nomina saltata dopo gli inconsueti tweet rivolti all’allora segretario del Pd Matteo Renzi dal suo account Twitter. “Stasera ho deciso – twittò Tommaso Miele dopo le primarie vinte da Renzi – per evitare che torni Micron (che proprio non lo reggo) voterò convintamente M5S”. Poco prima rilanciava un incommentabile tweet sugli elettori Pd a cui piacerebbe “godere da dietro”. E poi: “Grande vittoria di Renzi (Micron) oggi, grande vittoria M5s domani alle politiche”. Ancora prima scriveva: “Italiani in futuro ricordatevi chi è Renzi: arrogante, presuntuoso, prepotente, incapace, bugiardo: che non si accosti più a Palazzo Chigi”. E così veniva commentato un intervento dell’ex premier: “È tornato sulla scena il cazzaro di Rignano sull’Arno. Ancora parla. Ha la faccia come il …”.

Espressioni forse un tantino colorite per l’autorevolezza e la terzietà di cui il giudice deve dare prova. Intervistato sull’argomento, disse di aver lasciato l’ipad in ufficio e di essere rimasto vittima di un buontempone. Rimase un giallo, non privo di imbarazzi. Tanto che venne nominato in gran segreto, nel gennaio scorso, Presidente aggiunto della Corte dei conti (che smentì inizialmente la promozione). Non può che essere stato suo lo stop così energico all’istanza di rito abbreviato. Con quale motivazione, rimane un altro mistero tutto da svelare.

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.