Le malattie non sono poi così democratiche. Alla fine, ci vanno di mezzo i poveri Vip. Vi ricordate don Rodrigo, quello del Manzoni? Faceva tanto il gradasso, di cappa spada e prepotenza, poi una sera mangiò pesante e andò a letto trafitto da brutti sogni e un dolore al fianco che, pensò, doveva essere l’elsa della spada. Poi si svegliò ed era un bubbone della peste. Anche Aurelio De Laurentis si sveglia storto e scombussolato per andare dai super vip di Milano, e ha qualcosa dentro che lo fa barcollare. Dice: devono essere state le ostriche. Troppe. Poi i cronisti d’assalto, quelli che si respirano i virus di tutti e senza chiedere niente, mormorano: e allora, il Covid? Lui, Aurelio il grande ma anche l’affaticato, lo stufo, talvolta lo scortesone rude. Fa, dice: «Chiedetelo a Conte, non quello dell’Inter, quello del governo». “Che vuol dire?” farfuglia la truppa coi microfoni. Lo sa lui. Anzi non lo sa.

Tutti quelli che gli sono stati vicini fanno le corna e il tampone, una strage di tamponi, non letale, per carità, siamo nel sintomatico oltre i settanta, veramente un po’ scocciante, ma insomma. E così comincia la solfa: chi è stato, dove eri, perché non ti sei messo la mascherina, ma non mi rompere il cazzo con la mascherina, però potresti anche essere più gentile, ma mi avete proprio rotto, non vedete che sto male. Ed è così. Aurelio De Laurentis, principe del cinema produttivo, un imprenditore di imprese artistiche e commerciali da paura, un big shot del mondo italo-americano, produttore di Verdone e di tutti i film di successo, uno che ha la mano d’oro, il fiuto d’oro, uno che fa cagare oro a qualsiasi cosa, film, squadra, giocatore, produzione, è stato ferito dalla bestia che gira, quella bestia di cui tutti dicono a me che mi frega, non vedi che è già sparito, e poi piangono disperati perché il Covid dà la solitudine e fa fare i conti col pensiero della morte per via della polmonite, che è una delle più infami troiate che possano stroncare un corpo umano. Ti si mette sui collo come un poliziotto col ginocchio e ti strema, let me breath, così mi ammazzi.

Aurelio De Laurentis non l’ammazzerà nessuno, nemmeno questo virus che di per sé non sarebbe una carogna: poveraccio, privo di organi di riproduzione, chiede soltanto di entrare nelle tue cellule per fare delle fotocopie, e tu reagisci con questa over reazione autoimmune e ti ammazzi da solo con la polmonite bilaterale grigia. Ma così è la storia. Diminuiscono i malati normali, aumentano i malati d’eccellenza, o almeno li si vede subito. Aurelio De Laurentis viene da una schiatta, i De Laurentis sono come degli Agnelli napoletani ma stanno tutti nello spettacolo, nella produzione e poi il calcio, questa febbre della serie A che colpisce i Vip che se non hanno la loro squadra non si sentono contenti. Con me cascate male perché di calcio capisco poco, salvo che da quando ero bambino mi hanno detto che ero della Roma e da allora in genere soffro se la Roma perde. Ma per quello del Napoli. Tutt’altra cosa. Un’epopea, lo stadio San Paolo, sembra di vedere un giovane ministro degli Esteri abbronzatissimo che conduce la gente a trovare posto sulle gradinate e fa sedere le signore, sempre gentile, servizievole. Che stadio, il San Paolo di Napoli, i boati per Maradona e tutte quelle cose lì.

Aurelio è uno che quando si è buttato nell’impresa si andato a raccattare un Napoli dalla serie C dove faceva la fame e lo ha riportato alla gloria, ma questo già lo sapete tutti, dunque perché dirlo. Eppure, va detto perché c’è in quest’uomo d’azione, in questo imprenditore decisionista di successo, quel tono, quello stile che è fatto di praticità e una certa dose di sfacciataggine, di improntitudine che è nei fatti, quasi una uniforme dell’obbligo. L’unico super Vip che non abbiamo mai visto prendere quel tono del cavolo, per esempio davanti ai giornalisti, è stato Berlusconi che, o ha evitato, oppure si è concesso con tutte le sue teatralità che tendono a smussare gli angoli. Aurelio è invece andato sotto inchiesta disciplinare per comportamento rude con i giornalisti, poi – se ricordiamo bene – con qualche organo direttivo della congrega, perché ha un carattere spiccio che tira dritto, non alla milanese. De Laurentis è un napoletano della razza che bada al sodo, ma fa anche un mestiere – scoprire talenti e vendere film e distribuirli – che gli assegnano delle qualità diverse come il savoir faire con chi conta e una consuetudine non evitabile con quei rompicoglioni della stampa di zona, tutti sempre ansiosi, attorcigliati nei loro fili, un po’ balbettanti e un po’ vocianti che non sono mai pertinenti.

Sono ruoli, sono mestieri, l’Italia è in fondo un Paese latino, ma più vicino all’Argentina che alla Francia, almeno nelle zone che furono domini di Spagna, laddove don Rodrigo faceva legge (la Milano spagnola per sua fortuna durò poco perché poi arrivò Maria Teresa d’Austria che rimise tutto a posto e insegnò la Wiener Schnitzel ai lombardi dicendo «questa potete chiamarla cotoletta alla milanese»). Guai a buttarla in antropologia o si finisce col cantare O sole mio in gondola a Venezia anziché a Napoli, ma seriamente ci chiediamo se un uomo come Aurelio De Laurentis potrebbe essere qualcos’altro che un grande e fortunato imprenditore napoletano. Non credo fiorentino, veneziano non se ne parla e neanche romano. Figurati genovese, che è roba da Beppe Grillo giovane di bottega che conta o sacchi in entrata e sacchi in uscita.

No, lì c’è il geniaccio chiamatelo come volete. Ma è una genialità tosta, all’occorrenza sfacciata. Aurelio non mette la mascherina e si trova in compagnia di Nancy Pelosi che si fa beccare senza paranaso dove le fanno la tintura. Questo ha a che fare, crediamo, più con il diritto all’immortalità che un vero imprenditore del sud vive nella sua carne come antidoto all’angoscia di morte. Tutti abbiamo l’angoscia di morte, ma chi sa stare a prua con la durlindana sguainata, sfida le regole insieme alle onde. Aurelio è un capo clan, è un fratello, padre, parente, è uno che ha imparato a produrre un semi reale e tuttavia realissimo com’è il cinema, restando un big anche nel momento della crisi globale.

Prende una squadra e la porta in zona scudetto, poi ne compra un’altra, gli fanno le pulci sulla dichiarazione delle tasse come a tutti i veri big, lo infastidiscono, lo antipatizzano e lui se ne fotte, di loro e del virus e va a Milano e dice cazzo, sono state le ostriche. Non mi sento bene, troppo champagne, ma più che altro le ostriche.

C’era il carretto dell’ostricaro fisico, che è una invenzione napoletana, abbiamo esagerato. Invece no. C’era chillu fetent r’o Corona, o Covid che avevate detto. Conte! Tu l’avevi detto, ma vafangùlo, ch’era finito e invece non è finito un cazzo e mi avete appestato con queste stronzate. Scontroso, malato, incazzato con la vita, ma un’aria da chi vive a Capri, che non è come vivere a Rapallo, perché Capri un un’isola per soli sopravvissuti genetici, per chi tifa Napoli, ma sta a Capri. Sempre che mo’ questi non mi rompono troppo i coglioni co’ sto virus, secondo me sono state le ostriche. Chillu fetent di Conte. No, non quello dell’Inter. Quell’altro.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.