Guardo incantato Divine, il bambino nigeriano che afferra il mappamondo di plastica quasi più grande di lui e se lo mette sulle spalle andando in giro fra i banchi mentre la madre resta seduta al tavolino impegnata a studiare i tempi verbali. L’infante africano regge il peso del mondo. Di fronte al suo gesto di straordinaria evocazione simbolica, trattengo a stento la commozione. Nel piccolo allievo decifro una speciale udienza impossibile da disertare. Oggi infatti, nel giorno dei morti, non riesco a togliermi dalla mente un’altra madre e un altro bambino, i cui corpi sono stati ritrovati, poche settimane fa, abbracciati in fondo al mare al largo di Lampedusa. Erano quasi arrivati a destinazione ma, come tanti loro compagni sventurati, non ce l’hanno fatta. Ora vorrei che giocassero insieme: i sommersi e i salvati.

«In due nuotano i morti, / in due, e intorno gli scorre vino» scrisse Paul Celan, nella lingua del nemico, («Zu zweien schwimmen die Toten, / zu zwein, umflossen von Wein»), pensando ai cadaveri dei deportati nei lager nazisti, gli unici, secondo Primo Levi, che avrebbero potuto raccontare l’abominio, se la Medusa non li avesse impietriti. Un giorno forse un ragazzo studioso, appassionato della storia italiana del Terzo Millennio, chiederà, in buona fede, senza acrimonia, né secondi fini, ai nostri nipoti, o pronipoti, o chi per loro, insomma quando non ci saremo più, dov’eravamo al tempo in cui uomini e donne affogavano a decine, a centinaia, a migliaia, nel Mediterraneo, alle porte di casa, allo stesso modo in cui abbiamo fatto noi con gli abitanti dei paesi intorno a Buchenwald, ad Auschwitz, a Bergen-Belsen, a Sobibor, a Treblinka, a Mathausen. Dov’erano quei cittadini tedeschi, schiacciati dal totalitarismo, quando vedevano le ceneri dei morti posarsi leggere sui rami degli alberi dei giardini davanti all’ingresso delle loro abitazioni. Come organizzavano le risposte autodifensive da formulare a se stessi, in quale maniera edificavano gli alibi interiori dietro i quali ripararsi, mettersi al sicuro, proteggersi. E dove siamo noi adesso, cittadini italiani, che godiamo della democrazia, come facciamo a districarci nella ridda di ipotesi e discussioni per interpretare il massacro quotidiano a cui assistiamo. In quale maniera riusciamo a muoverci nei meandri dei codici insanguinati che legittimano questo scempio a cielo aperto. Che notti, le nostre! E quali antiche perfette, fantastiche, burocratiche ipocrisie. Parole false pronunciate nei consessi più autorevoli di un’Europa di cartapesta che lascia illanguidire le sue migliori stelle.

Ammettiamolo: sono domande fastidiose, come potrebbe essere il gesto di raschiare la crosta cresciuta sulla ferita appena rimarginata. Meglio non rispondere, restando in sospensione, alla maniera di retorici equilibristi abituati ad accettare la convenzione giuridica del male minore, quei miserabili scampoli di giustizia terrena costruiti apposta per noi, che siamo in grado di pagare la polizza annuale del premio assicurativo per evitare ogni rischio. Forse è questa la ragione per cui non stacco gli occhi dal piccolo nigeriano. Lo osservo mentre sembra ridere da solo, quasi a testimoniare una sopravvivenza che, a ben riflettere, non è soltanto sua. È come se il bambino e la madre ventenne mi prendessero per mano. Loro conoscono il sentiero. Giocando col mappamondo, indicano la strada da percorrere. Dovrò seguirli, nel tentativo di trovare il disincanto e la determinazione che consentì a un altro grande poeta, Philip Larkin, di formulare, nella sua piena maturità espressiva, in Tristi passi, una consapevolezza nuova: si era alzato durante il sonno per andare al bagno e nell’oscurità aveva osservato la luna che fuggiva tra le nuvole sfilacciate come “fumo di cannone”, (cito da Enrico Testa, il traduttore), emozionandosi al ricordo di quando lo faceva tanti anni prima. Un brivido lo aveva attraversato. Di cosa si trattava? «La forza e il dolore / della gioventù non potrà tornare, / ma in qualche parte resta, per gli altri, intatta».

Eraldo Affinati

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