C’è chi sa dribblare con eleganza e destrezza: accelera, finta, cambia direzione e lascia l’avversario sul posto. È tutta una questione di tempi, intuito e rapidità. Ma ciò che nel calcio entusiasma e incanta, quando si parla di tasse assume un volto ben meno affascinante: il dribbling, in ambito fiscale, diventa una consuetudine tanto diffusa quanto moralmente e civicamente inaccettabile. Eppure, il trucco resta simile: sottostimare – o meglio, eludere – i propri redditi. Una mossa apparentemente semplice, che unita a un sistema di controlli inefficace, genera voragini nei conti pubblici e corrode le fondamenta del welfare. Oggi esiste una mappa piuttosto chiara di chi questo dribbling lo compie quotidianamente, spesso senza dolo esplicito, ma con la complicità silenziosa di un sistema normativo e fiscale tanto tortuoso quanto permissivo.

Secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Economia – aggiornati all’ultimo anno d’imposta disponibile – la sproporzione tra redditi dichiarati e realtà economica è sconcertante. In media, i ristoratori dichiarano 15.900 euro lordi all’anno; gli albergatori poco più, con 16.300 euro. I baristi si fermano a meno di 14.000 euro, i commercianti al dettaglio a 15.800, e perfino i farmacisti – categoria notoriamente benestante – si attestano su 22.300 euro annui. Per confronto, un lavoratore dipendente denuncia in media 23.500 euro, mentre un pensionato arriva a 19.300. La sproporzione è evidente, tanto più se si considera che le categorie citate gestiscono attività con flussi di cassa rilevanti, spesso in contanti, e con margini operativi che mal si conciliano con redditi così esigui.

Non si tratta di episodi isolati, ma di una prassi consolidata. Una sotto-dichiarazione strutturale che, pur nella varietà delle singole situazioni, contraddice clamorosamente ogni retorica sulla lotta all’evasione. E la zona grigia, spesso ignorata, è persino più soffocante del “nero” conclamato: una nebbia fiscale in cui reddito prodotto e reddito dichiarato divergono sistematicamente, creando un delta che pare incolmabile. Il problema, però, non si esaurisce nelle categorie economiche. Secondo stime consolidate, circa il 60% dei cittadini italiani non versa imposte dirette significative. Il sistema, infatti, tra esenzioni, deduzioni e soglie imponibili molto basse, ha finito per concentrare la pressione fiscale su una minoranza di contribuenti regolari. Si configura così un equilibrio precario, sempre più vicino alla rottura.

A rendere più instabile questo assetto contribuisce anche la cosiddetta flat tax in regime forfettario. Nata per favorire le micro-imprese e il lavoro autonomo, essa si è progressivamente trasformata – come denuncia anche un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale – in un freno alla crescita. Secondo l’FMI, l’attuale regime incentiva comportamenti elusivi (come il frazionamento delle attività per rimanere sotto le soglie critiche) e disincentiva l’espansione dimensionale delle imprese, ostacolando la concorrenza, gli investimenti e la produttività.

Non siamo dunque soltanto di fronte a un danno economico – con decine di miliardi sottratti ogni anno al bilancio pubblico – ma a un vero e proprio deficit culturale. Si diffonde l’idea che pagare le tasse sia un’opzione, che evadere equivalga a sopravvivere, e che l’onestà sia semplicemente la scelta dei meno scaltri. Il fisco diventa così un avversario da aggirare, non più l’arbitro di un gioco equo. E la cittadinanza fiscale si sgretola.

In questo contesto, parlare di giustizia fiscale non può ridursi a una discussione tecnica sulle aliquote. Occorre ben altro: serve un impegno politico e civile per contrastare l’evasione sistemica, potenziare gli strumenti di tracciabilità, investire in controlli mirati ed efficienti. Ma soprattutto, è fondamentale allargare la base imponibile, recuperando alla contribuzione attiva interi segmenti economici oggi ai margini del patto sociale.

Finché tutto questo non accadrà, il dribbling fiscale continuerà. Non sarà spettacolare, ma sarà efficace. E resterà uno dei principali ostacoli – forse il più insidioso – a qualsiasi seria riforma della finanza pubblica.

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classe '76, docente al liceo e giornalista, si affida a questo mantra: l’occhio vede, la mente ordina, ma è il discernimento a stabilire il senso"