C’è chi parla di ecatombe. Alle elezioni della Comunità autonoma di Madrid, capitale della Spagna, il Psoe, il partito socialista del premier Pedro Sanchez, guidato a Madrid da Ángel Gabilondo, raccoglie il peggior risultato della storia: il 16,8 per cento, 10 punti in meno rispetto a due anni fa. I socialisti bruciano 275mila voti e ottengono solo 24 seggi. Brutta fine anche per Pablo Iglesias, il leader della sinistra populista e radicale, dimessosi con una mossa da kamikaze dal governo nazionale a marzo, nell’estremo tentativo di salvare la sua creatura, Podemos, nella città che le aveva dato i natali. Il risultato è un misero 7 per cento.

Oggi Podemos appare una forza politica estremamente divisa al suo interno a livello nazionale e con forti differenze a livello territoriale. E destinata alla progressiva riduzione della sua influenza sulla vita politica del paese. Dopo il tonfo, Iglesias saluta tutti e annuncia di abbandonare l’attività politica. Di sicuro lascerà tutti gli incarichi: al suo posto arriva Yolanda Diaz, che già aveva ereditato il ruolo di Iglesias come vicepresidente del governo nazionale. Non è affatto da escludere, però, che il leader della sinistra populista spagnola continui una qualche forma di militanza con l’obiettivo di restaurare l’ispirazione originaria di Podemos come movimento sociale nato dalla crisi economica del 2010-11 e dalle conseguenti manifestazioni degli Indignados.

Le vincitrici di questo turno elettorale sono due donne: Isabel Díaz Ayuso e Mónica García Gómez di Más Madrid. Quasi del tutto sconosciuta fino a soli due anni fa, Isabel Díaz Ayuso si è trasformata in un vero fenomeno politico e qualcuno la considera già la Donald Trump della politica spagnola, destinata a conquistare il vertice del Ppe. È lei, presidente della Comunità di Madrid dal 2019 e candidata del Partido Popular, la vincente di queste elezioni a Madrid. Con 65 seggi il suo partito ottiene più di tutti e tre i partiti di sinistra messi insieme. Il risultato sembra garantire margini sufficienti per governare senza la necessità di ricorrere al sostegno di Vox, che nel frattempo si stabilizza: ma basarsi soltanto sull’astensione benevola del partito di estrema destra – senza, in cambio, posti di governo – è una ipotesi ancora tutta da verificare.

«La vittoria del Ppe a Madrid è la notizia più importante perché significa che i popolari sono stati capaci di riassorbire tutto il voto dei ceti medi che, di recente, avevano scelto Ciudadanos», spiega Josep Maria Carbonell, già segretario mondiale del Miec-Pax Romana, il movimento degli intellettuali cattolici, e a lungo deputato del partito socialista catalano. «Il Ppe guidato dalla Ayuso – continua Carbonell, oggi docente della Facoltà di Comunicazione Blanquerna dell’Università Ramon Llull – è originale e differente rispetto al resto della Spagna: mette insieme lo storico apparato amministrativo di matrice franchista con i valori della destra più conservatrice. Da un lato, abbraccia i valori del cristianesimo più fondamentalista e, dall’altro, quelli del capitalismo ultraliberale. Allo stesso tempo, in questa campagna, Ayuso ha promosso una sorta di ‘madridismo’, una versione populista e identitaria dell’essere capitale: Madrid come una realtà politica differente, forte di una politica fiscale favorevole per le famiglie che godono di redditi più alti e di una capacità di centralizzazione dell’economia spagnola».

L’espressione plastica di questa diversità si è realizzata nella gestione del lockdown durante la pandemia, grazie all’esercizio spregiudicato degli ampi poteri concessi dallo statuto delle autonomie. «Ayuso – spiega Carbonell – ha scelto una politica anti-covid temeraria: bar e ristoranti aperti, vita notturna più libera, termini per la chiusura più ritardati che nel resto della Spagna. Tutto questo le ha regalato una grande popolarità, benché Madrid sia la regione con il picco più alto dei contagi nel paese». Il blocco di destra adesso si è nettamente rafforzato e può contare in tutto su 78 seggi: 65 del Ppe e 13 di Vox, il partito di estrema destra. L’insieme delle forze di sinistra arriva a 58 seggi: 24 di Más Madrid, 24 del Partito socialista e 10 di Podemos. Solo due anni fa la differenza tra i due blocchi era di soli quattro parlamentari.

L’altra vincitrice delle elezioni madrilene è certamente Mónica García Gómez, professione anestesista, coordinatrice e portavoce del partito Más Madrid nell’Assemblea madrilena. Approfittando di un’affluenza storica (11 punti in più rispetto a quella del 2019) e del crollo del Psoe, una formazione quasi senza mezzi come Más Madrid è diventata il primo partito della sinistra nella capitale, risultando molto più attraente per i giovani progressisti madrileni e superando i socialisti di 4.500 voti. In politica dal 2015 nelle file di Podemos, anestesista di professione presso l’Ospedale 12 de Octubre per più di 20 anni, Mónica García Gómez ha conquistato consensi tra gli operatori sanitari di Madrid quando è stata portavoce dell’Associazione dei medici specialisti della capitale. Deve in parte il suo successo alle posizioni nette assunte nel corso della pandemia.

Come quando, nell’ottobre scorso, attaccò il ministro della Salute con un discorso aspro: «Quando abbiamo avuto 100 morti, non hai visto che si trattava di un’emergenza. Ora questa è un’emergenza sociale, sanitaria ed economica». Il suo partito è ispirato al femminismo e all’ambientalismo e, per questo, sembra destinato a ripercorrere i successi dei verdi tedeschi, oggi in testa ai sondaggi elettorali della sinistra in Germania. «Más Madrid è una scissione dei settori più moderati di Podemos», racconta Carbonell. «Un movimento che possiamo certamente schierare alla sinistra del Psoe. Ma, a differenza di Podemos che è una forza anticapitalista, Más Madrid è una sinistra rigenerata da giovani attivisti che potrebbe alla lunga riunirsi al Psoe. Más Madrid rappresenta ciò che potrebbe essere il futuro Psoe di Madrid».

Forse se lo augura anche il Psoe, visto che oggi sembra davvero sprofondato in una crisi irreversibile. «La caduta del Psoe è stata provocata da diversi fattori», spiega Carbonell. «Il primo è la polarizzazione politica tra Iglesias e la Ayuso. Ayuso è diventata la bandiera della libertà. Mentre Iglesias è diventato la bandiera dell’antifascismo», continua. In questa competizione così polarizzata, «il Psoe ha avuto molta difficoltà a ricoprire una posizione centrale, cosa che appare più facile quando c’è da confrontarsi con i populismi di estrema destra o di estrema sinistra. Credo comunque – conclude Carbonell – che il risultato di Madrid, di certo preoccupante, non possa essere considerato come una tendenza di tutta la Spagna e che la distanza tra Ppe e Psoe è destinata a ridursi sul piano nazionale”.

Intanto, approfittando della sconfitta degli avversari, Pablo Casado, presidente del Ppe, chiede pubblicamente un dibattito sullo stato della nazione in cui Pedro Sánchez “mostri la sua faccia”, dopo il “fallimento” del partito del premier alle elezioni di Madrid. D’altra parte, la domanda che adesso tutti si fanno è se si può governare la Spagna perdendo la capitale. “Si può, ma non è facile”, avverte Carbonell. “In primo luogo, Podemos potrebbe essere tentata dal tanto peggio, tanto meglio, facendo cadere il governo”. E poi resta da risolvere il groviglio catalano. “Qui – ricorda Carbonell – l’Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), la sinistra indipendentista catalana, è alle strette, perché per far partire il governo della Catalogna dopo settimane di trattative, il centrodestra chiede di fare una politica unitaria rispetto a Madrid, senza margini di dialogo con il Partito socialista”. Pedro Sanchez si trova dunque a fare i conti, da un lato, con l’alleato populista e, dall’altro, con i futuri governi avversi di Madrid e Barcellona. Un sentiero pieno di ostacoli.

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