Abbiamo chiesto al primo deputato di Azione, Enrico Costa, qual è secondo lui il percorso da seguire per ricostruire una casa comune dei riformisti.

Giornata dell’inaugurazione della targa per Enzo Tortora. Una figura simbolo della malagiustizia.
«Fondamentale ricordare sempre il sacrificio di Enzo Tortora, la sua vicenda rimane un esempio».

I suoi torturatori giudiziari sono stati tutti promossi.
«E accade quotidianamente. Non in casi sporadici: in mille casi l’anno. E davanti a ingiuste detenzioni, conclamato l’errore attraverso la riparazione per ingiusta detenzione, non si riavvolge mai il nastro per andare a valutare perché si è determinato quello sbaglio».

Perché non lo si fa?
«Si preferisce rimuovere piuttosto che riconoscere l’errore del giudice. Come se bastasse una somma economica per risarcire la sofferenza, senza capire dove si è sbagliato. Chi sbaglia deve essere sanzionato sul piano della carriera, oggi invece paga solo lo Stato. Ho presentato una proposta su questo: se lo Stato paga, il titolare dell’azione disciplinare deve valutare se c’è una responsabilità».

Senza voler essere irrispettosi, c’è un altro argomento – tutto politico – che meriterebbe una ammissione di colpa e una più sincera valutazione dell’errore: andare divisi alle Europee è costato caro ai riformisti di Azione e Stati Uniti d’Europa.
«Partirei dall’inizio, perché sostenere “è stato un errore non andare con due liste” è un po’ riduttivo. Io nel 2020 sono stato il primo deputato ad aderire ad Azione. Fin dal primo giorno abbiamo lavorato con l’obiettivo di scardinare il bipopulismo. Sono arrivate le elezioni e gli elettori ci hanno dato fiducia con il 7,8%. Venivamo da trent’anni di scelta di campo in cui gli elettori si collocavano in un perimetro: convincerli a uscirne è stato un capolavoro politico. E’ stata avviata una proposta politica solida e competitiva con i due poli».

L’operazione riesce ma il paziente muore.
«Dopo le elezioni il paziente era vivo e vegeto. E’ morto dopo qualche mese, non per morte naturale. Non siamo riusciti a coltivare quel sogno divenuto realtà. E lo abbiamo fatto con modalità virulente e aggressive, da alleati a peggiori nemici».

Mettendoci nei panni dell’elettore che vi ha votato, allora, è stato un brutto colpo…
«L’elettore si è sentito defraudato. Dalla sera alla mattina è sparito il progetto politico su cui ha investito. Avevamo un programma ambizioso, la stessa visione di Paese, eppure ognuno per la sua strada. Difficile da comprendere e da spiegare».

Cosa è successo, perché è deflagrata?
«Per incomprensioni e diffidenze. Ho provato in ogni modo a convincere gli amici che avremmo pagato a caro prezzo la divisione, ma ero rimasto solo, tra chi era convinto del contrario e chi non prendeva posizione. Allora, con Luigi Marattin abbiamo iniziato a girare l’Italia, parlando di giustizia e di fisco per dimostrare che sui contenuti non c’è divisione. Tutti quelli che partecipano ai nostri incontri ci incoraggiavano a trovare un percorso comune. Il clima opposto di quello che si respirava a Roma».

La volontà di spaccare, anziché unire…
«Il terzo polo ha una proposta solida che può competere con i due poli se rimane organica, strutturata, a tutto tondo. Perché se ci frammettiamo e polverizziamo la proposta perdiamo l’identità “terza” e diventiamo “accessori” di un altro polo. Dobbiamo una risposta a quegli elettori che ci hanno votato alle Europee, non vedendo eleggere nessuno. Non c’è sensazione peggiore di aver mandato in fumo il proprio voto».

Dunque cosa gli diciamo, a quell’elettore? Che ha tutte le ragioni…
«Dobbiamo dimostrargli che abbiamo capito la lezione. Il suo voto non ha eletto nessuno ma ci ha dato una lezione, ci ha fatto capire che o si fa un percorso comune di chi condivide lo stesso programma, o si sarà fallito il nostro compito politico. E si diventa l’accessorio di uno dei due poli».

Fine delle “praterie”?
«E sono convinto che nella mente di qualcuno di queste due forze politiche, Azione e Italia Viva, ci sia in realtà la tentazione legittima di diventare accessori di uno dei due poli, magari per lucrare quattro o cinque collegi blindati alle prossime elezioni. Una prospettiva diametralmente opposta a quella per cui siamo nati».

Qual è il percorso?
«Ho letto che autorevoli esponenti che lanciano costituenti, un percorso che, detto così, non significa niente. Dobbiamo invece partire dai contenuti, senza pregiudizi».

E quindi?
«Lancerei un manifesto di contenuti, un programma che riparta da quello delle elezioni politiche. Io mi candido a scrivere la parte del sulla giustizia. E chi condivide i contenuti del manifesto, si incammina per la stessa strada, senza veti».

Siete al bivio, ognun per sé o il terzo polo per tutti?
«Il bivio è tra essere protagonisti o accessori. Il proporzionale delle Europee era il terreno più difficile: per noi è più facile emergere con il maggioritario portando un’offerta politica alternativa ai due poli. Calenda – che anche in queste Europee ha fatto un’ottima campagna elettorale – lo ha dimostrato a Roma ed alle politiche. Il proporzionale, unito alle nostre divisioni, ci ha reso poco protagonisti».

Calenda deve fare un passo indietro?
«Senza Calenda non c’è Azione. Carlo è una persona di grande cuore e passione. Gli voglio bene, anche se mi considera un rompiscatole».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.