È molto difficile riuscire a spiegare, senza correre il rischio di essere troppo enfatico, cosa possa significare la passione per la propria squadra di calcio. Soprattutto se questa squadra ha un legame così profondo, totale, identitario, con la sua città e il suo popolo, come il Napoli. Non posso non cominciare dall’inizio, dalla mia infanzia. Io sono cresciuto in una famiglia in cui l’abbonamento allo stadio, la partecipazione ai rituali del tifo, era un fattore basilare della vita familiare. Era quasi un diritto fondamentale come il cibo, l’educazione e il vestiario. Andare allo stadio era semplicemente un elemento costitutivo dell’essere parte della “Comunità”. E i tifosi di una squadra sanno essere una comunità come nessun altro. Il tifo è un potentissimo aggregatore, che supera le diversità anagrafiche politiche e sociali. La maglia e i colori di una squadra creano fratellanza e confidenza tra perfetti sconosciuti, tra gente che non ha assolutamente nient’altro in comune. Il tifo ti porta a convergere negli stessi luoghi, fisici o ideali, a urlare, imprecare, gioire insieme, in un immane flusso di empatia collettiva. Per questo è difficile descrivere un sentimento così forte e folle come l’amore verso la propria squadra del cuore. Un amore che è un compagno di strada per tutta la vita.

Quanti i ricordi della prima giovinezza, quando essere tifoso del Napoli era per me un dato ineluttabile, come il fatto di avere un nome e un cognome. Già a 5 anni mi portavano allo stadio, con zii e cugini, e alla iniziale emozione di vedere tutti quei colori, quando la televisione era ancora in bianco e nero, seguiva la noia, per fortuna superata dall’immancabile gelato. Ma verso i 10/11 anni ero già diventato un tifoso esperto, sotto la guida attenta del mio adorato fratello maggiore, Francesco, in un crescendo di passione sempre più “totalizzante”.
Ricordo bene le prime trasferte. Appuntamento a mezzanotte davanti al ristorante “il Sarago” di piazza Sannazaro. I cori, l’eccitazione alla partenza, poi le interminabili notti a contorcersi su un sediolino che era più che altro uno strumento di tortura. E poi il profumo del cornetto all’alba, quando ai nostri occhi, assonnati, dopo un viaggio interminabile, si apriva la vista delle brumose città del nord.

Ricordo lo shock di scoprire che, nelle mattine di ottobre, in città, come Torino, Verona, Milano faceva già freddo e c’era la nebbia, mentre per noi ottobre era sostanzialmente un mese estivo. E ricordo, fortissima, l’emozione dei nostri “compaesani” che ci venivano incontro nei parchi e nei giardini di Bologna o di Bergamo o di Genova, per ringraziarci di aver fatto tanta strada! A volte erano juventini o milanisti, ma c’era un fortissimo legame con quei ragazzi che sbarcavano dal sud, stanchi e assonnati, dopo i lunghi viaggi notturni. E ci raccontavano le loro storie, spesso di miseria ma anche di duro lavoro e di riscatto. Di un nord a volte accogliente e generoso, ma spesso duro, anzi spietato, con i figli del sud.

What’s Maradona?

Posso dire, senza tema di smentita, che ho cominciato ad appassionarmi alla questione meridionale perché colpito da quelle parole dei meridionali immigrati al nord, spesso durante la grande emigrazione degli anni 50’-70’, ma anche per trovare una ragione a quei rabbiosi urli “Colera” e “Terremotati” che gli stadi del nord ci riversavano addosso immancabilmente. E ricordo, fortissima, anche la sensazione che avevamo noi, fortunati e privilegiati, di fronte a quello che vedevamo. Noi, i Napoletani che venivano da Napoli e che non erano (ancora?) emigrati. Poi un giorno, all’improvviso, nel luglio del 1984, ci piomba addosso un vero ciclone: Diego Armando Maradona. Fu come lanciare una torcia accesa in un deposito di polvere da sparo. Il risultato fu una esplosione incontrollabile di passione. Io ero all’estero, sfruttando il privilegio di essere figlio di uno scienziato aerospaziale, un membro di una piccola comunità già globale, molto prima della vera “globalizzazione”. Ero a Denver, nel lontanissimo Colorado, a passare un mese da amici di famiglia, quando piombò, grazie alla telefonata di mio fratello (sempre lui), la notizia dell’acquisto di Maradona. Cominciai a correre in maniera scomposta urlando “Maradona, Maradona Maradona!!”. Mi scaraventai fuori di casa e una vicina, attratta dal frastuono che facevo, mi chiese perché urlassi e io gli risposi “Maradona is coming to Napoli!”. Lei mi guardò, con aria sorpresa e divertita, e mi chiese what’s Maradona?”.

Ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni da quando “el Diego” è arrivato, diventando un pezzo dell’identità napoletana, mi trovo a dover spiegare a tante persone come nasce questo legame così profondo e resistente. E molti amici argentini si meravigliano di vedere come il “culto” (sì, perché di culto si tratta non di altro) di Maradona sia immensamente più forte a Napoli che non a Buenos Aires. Il motivo è duplice: il primo è che nella capitale argentina ci sono oltre 10 squadre di calcio e Maradona ha militato solo in due di queste. Laggiù el pibe de oro era di alcuni, di molti, ma non di tutto un popolo, come da noi. Il secondo è la straordinaria unicità della storia, assurda e impensabile nel calcio di oggi, che portò Maradona a Napoli. Un giocatore, già riconosciuto come il più forte di tutti che, in maniera del tutto inspiegabile, accetta di raccogliere la sfida di andare in una squadra oggettivamente “sfigata”, che non aveva mai vinto niente, in una città bella ma povera, piegata da un terribile terremoto e infestata da una rampante criminalità.

Il riscatto con il primo scudetto

E Maradona, meravigliosamente e ancora inspiegabilmente, scelse la sfida di andare a provare a vincere proprio in quella disastrata Napoli. E questo, noi Napoletani, non potremo mai dimenticarlo. Diego Armando Maradona con le sue grandi debolezze e i suoi evidenti difetti, è stato un uomo di un carisma straordinario, un uomo generoso e soprattutto un vero capopopolo. Amato e rispettato dai compagni di squadra come nessuna delle grandi super star, prima e dopo di lui. E, soprattutto, amato in modo assoluto e disperato dal suo popolo. Un uomo coraggioso e spregiudicato, che aveva capito che, se avesse vinto a Napoli, avrebbe fatto la storia. Seguirono i giorni della gloria e dei trionfi. Quegli stessi immigrati, che ci venivano incontro già anni prima, ora ci guardavano non più solo con nostalgia e simpatia, ma con l’ammirazione che si riserva ai vincenti, ai più forti. Le armate festanti dei tifosi del Napoli invadevano tutte le città d’Italia. Il nostro condottiero, Diego ci faceva sentire invincibili. E poi l’urlo delle vittorie più belle, gli abbracci interminabili con decine di sconosciuti negli stadi d’Italia e d’Europa. Le lacrime di gioia per la vittoria del primo scudetto, e le settimane di festa, tra spettacoli pirotecnici, raduni di piazza, concerti improvvisati nei vicoli e processioni per mare.

Riconoscenza eterna a De Laurentiis

Un impasto indimenticabile per chi ha vissuto quella stagione con l’intensità dei 20 anni. Ancora una volta, nel mio amore per il Napoli, mi sono sentito un privilegiato. Sul muro del cimitero di Poggioreale una grande e poetica scritta per i nostri cari defunti “Che ve site persi!” (che vi siete persi). Ma l’amore per la propria squadra non può e non deve seguire i cicli delle umane cose. Immancabilmente seguirono gli anni del declino, la triste fuga di Maradona, le retrocessioni, il fallimento. Ma, come i nostri padri e nonni avevano atteso oltre 50 anni per vedere il primo scudetto, anche noi abbiamo dovuto e saputo attendere. Ricordo l’abbonamento in serie C, con un gruppo di amici, per essere a fianco del nuovo Napoli di De Laurentiis, un uomo che si è conquistato, su campo e con i fatti, la riconoscenza eterna dei tifosi del Napoli.
Un altro pezzo centrale della mia passione calcistica sono i ricordi con i “Napoletani della diaspora”. Per molti anni lontano dalla mia città, la partita del Napoli ha rappresentato per me il sapore dei ritrovi, tra amici, a vedere il “nostro” Napoli, magari in Brasile, negli Usa o in Cina. Ritrovi dove, come un fiore nel deserto, spuntava (e spunta ancora), improvviso, il nostro meraviglioso dialetto. Direi che è quasi impossibile guardare una partita del Napoli con un gruppo di amici, allo stadio o altrove, parlando in italiano. È qualcosa di sbagliato, quasi innaturale.

Gli ultimi anni sono stati bellissimi. La maturità ti permette di godere le passioni in maniera forse meno frenetica, ma ancora più profonda. Il crescendo del Napoli degli ultimi 10 anni ha ricompattato la immensa comunità di tifosi del Napoli. I social e l’interconnessione globale hanno riacceso il senso di appartenenza di milioni di napoletani nel mondo, anche richiamati da una nuova fase di popolarità e attrattività mediatica, turistica e culturale di Napoli. E per me festeggiare, dopo 33 anni, lo scudetto con i miei figli e con il grande gruppo di amici, sempre gli stessi, abbonati insieme dalla Serie C, è stata una gioia indicibile. Uno scudetto “incubato” per molti mesi, come la nascita di un bambino a lungo atteso, con la Città che si colorava di azzurro giorno dopo giorno. Le lacrime, irrefrenabili, pensando a mio padre, la cui ultima grande gioia su questa terra era stato il goal di Koulibaly a Torino nel 2018, prima di morire senza aver visto il terzo scudetto.

Il meglio deve ancora venire

Oggi il Napoli è parte delle mie radici, della mia famiglia e del mio essere. I miei frenetici viaggi in giro per il mondo sono spesso uno slalom tra le date e gli orari delle partite più importanti, quelle imperdibili, ma anche le meno decisive, perché non posso non vedere la partita del Napoli, magari dal tablet in qualche luogo improbabile e qualche contesto inopportuno. Per esempio pochi mesi fa a New Delhi, in un angolo dell’ambasciata Italiana durante un ricevimento, mi sono ritrovato a gioire ad abbracciarmi per una delle (tante) vittorie sofferte del campionato 24/25 con un carabiniere di Castellammare di Stabia, ovviamente mai visto prima.

Come avvenuto con il terzo scudetto 22/23, anche per il quarto ho avuto modo di partecipare a quasi tutte le trasferte. Un quarto successo così bello, così combattuto e così penato. Seguito da una esplosione di festa liberatoria, come tutte le feste che seguono una grande paura. Gioia sfrenata e dolcissima, e poi la sfilata del Bus sul lungomare, in una marea azzurra, con il mare scintillante e il Vesuvio sullo sfondo: una scena che ha incantato il mondo. Ma io, da ottimista inguaribile e da tifoso appassionato, sono sempre convinto che il meglio debba ancora venire. Siamo decisi a restare, in pianta stabile, tra i primi 10 o 20 club Europei e rafforzare ancora questo legame pazzesco tra una squadra, una città e un intero popolo. Per quanto mi riguarda, la passione per il Napoli è una compagna di vita. È parte della mia storia e del mio essere. E come, tutte le passioni vere e grandi, non può temere il futuro.

Riccardo Monti

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