Soltanto in Italia, ancora oggi, la parola destra non ha piena cittadinanza. Non evoca il conservatorismo europeo. Evoca il fascismo. Evoca un fenomeno che, a ottant’anni dal crollo del regime mussoliniano, continua ad essere visto come una minaccia presente e permanente. Soltanto in Italia le sinistre ritengono perciò di dover fare della battaglia antifascista un tema prioritario dell’agenda politica. E soltanto in Italia la stessa contrapposizione fra sinistra e destra perde i propri concreti connotati e annega nella contrapposizione tra antifascismo e fascismo. Sicché oggi odorano di fascismo – e chiamano alla reazione antifascista – le politiche del governo Meloni sui diritti civili, sull’emigrazione, sulla famiglia. Odora di autoritarismo fascista la riforma del premierato.

Odora di attacco fascista all’indipendenza della magistratura la riforma della giustizia. Perfino le catene di Ilaria Salis alludono, per interposta Ungheria, alle carceri fasciste. Perfino la servile censura inflitta a uno scrittore diventa il segno della deriva fascista, quasi che se la Rai dei lottizzati fosse il Minculpop. Un nebbione ideologico che impedisce di capire cosa sia una politica di destra e cosa sia un’alternativa di sinistra. Fascismo e antifascismo si confermano l’eterno passe-partout della lotta politica. Ma un passe-partout che non apre nessuna porta, che non emoziona un’opinione pubblica già da sé diffidente nei confronti della politica, che non allarga i confini della sinistra e attizza semmai il vittimismo della destra.

Soltanto l’Italia, del resto, diversamente dalla Francia e dalla stessa Germania, non ha storicizzato il fascismo. Dall’immediato dopoguerra fino ad oggi. Non l’ha storicizzato la destra neofascista, che era nata nel 1946 e che per decenni si tenne stretto il proprio ghetto identitario, esibendo fedeltà incrollabile a Mussolini e a Salò e vivacchiando sul nostalgismo dei reduci. Un partito del quale ancora nel 1988, alla vigilia della morte, Giorgio Almirante volle ribadire il credo immarcescibile: “il fascismo non è dietro le nostre spalle: il fascismo è davanti a noi!”, disse in un’intervista al Corriere della Sera.

Poi, qualche anno dopo, arrivò la svolta di Gianfranco Fini, l’abiura del fascismo, il riconoscimento all’antifascismo della riconquista delle libertà. “L’antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”, dicevano le tesi di Fiuggi. Ma i reduci di Salò avevano aspettato mezzo secolo per fare il grande passo. Tanto meno, nel frattempo, hanno storicizzato il fascismo – e ancora oggi sembrano incapaci di farlo – le sinistre.

Erano risorte, dopo il Ventennio, sul sangue dei partigiani, di coloro che avevano combattuto la dittatura al prezzo della vita, e ritennero di avere la rappresentanza dell’Italia antifascista. Quasi un monopolio. Divulgarono l’equivalenza tra antifascismo e sinistra e fecero dell’antifascismo la religione del paese intero. Ma avevano di fronte un’Italia che era stata socializzata e acculturata dalle istituzioni del regime, che per quasi vent’anni aveva dato il proprio consenso a Mussolini, che poi aveva partecipato alla guerra partigiana grazie a sparute minoranze, non più di duecentomila coraggiosi, disse Ferruccio Parri.

Dovevano vedersela insomma con un’opinione pubblica che, dopo la guerra e la sconfitta, non era più fascista, ma neppure era antifascista. Zona grigia, attendisti, maggioranza silenziosa, chiamiamoli come vogliamo. Comunque, per i partiti della Resistenza, si trattava di un grosso problema di rappresentanza. E la soluzione del dilemma fu duplice. Da una parte, con la rinuncia nel 1946 all’epurazione, tutta quanta la società fascista venne riabilitata, dalla folla dei travet ai temuti capi dell’Ovra, e poté continuare la propria esistenza all’interno della nuova democrazia.

Dall’altra, la damnatio memoriae della sconfitta e l’invenzione della minaccia fascista emarginarono politicamente non soltanto il Msi, ma ogni altra formazione di destra. E mentre la zona grigia confluiva, in mancanza di meglio, nel ventre della Balena Bianca, stabilizzando definitivamente le geometrie parlamentari, l’antifascismo militante diventò il biglietto da visita delle sinistre. Nel 1960, la vittoriosa prova di forza della piazza contro il governo Tambroni mostrò l’efficacia di quella parola d’ordine. I disordini di Genova sembrarono al vecchio Nenni “ginnastica rivoluzionaria” (“l’estremismo che pagammo caro nel 1919”, disse), ma finirono per imporre una svolta politica, con l’ingresso dei socialisti nel governo, e una svolta culturale, con il dilagare dell’engagement dei chierici, del populismo dei cineasti, del neorealismo alla Bassani e Cassola.

L’antifascismo era ormai il terreno privilegiato delle sinistre e finiva per sancire il diritto di cittadinanza politica dello stesso Pci, grazie all’equivalenza tra anticomunismo e fascismo. E funzionava. Il paese non era stato antifascista durante il fascismo, ha scritto Ernesto Galli della Loggia, e non fu anticomunista quando si impose l’egemonia culturale delle sinistre. Con ogni evidenza, per le destre non c’era modo di emendarsi. E tanto meno ne ebbero la possibilità durante gli anni di piombo, quando la filiera degli attentati senza volto sembrò materializzare lo spettro fascista. Né sciolse il nodo, in seguito, la stessa svolta di Fini. Il centrodestra, che nel 1994 era diventato maggioranza con Berlusconi, venne soverchiato da un’aspra campagna antifascista. Il parlamento europeo fu avvisato che in Italia i fascisti erano tornati al potere. Era una lettura manipolatoria della storia repubblicana. In realtà, quel paese perennemente accusato di covare nelle vene il germe della dittatura aveva fatto ben presto – già negli anni Quaranta – la sua scelta. Una scelta netta, forte, inequivocabile.

Malgrado la scarsa familiarità con la democrazia, malgrado vent’anni di pedagogia fascista, malgrado la stessa continuità con gli uomini del Ventennio offerta su un piatto d’argento dal “perdono” di Togliatti e De Gasperi, il paese aveva voltato pagina. Il 18 aprile del 1948 vinsero a man bassa i partiti che garantivano le libertà politiche e civili. Persero i partiti che mischiavano antifascismo e comunismo e che, tra l’Occidente e la dittatura sovietica, erano dalla parte della dittatura. Ed ebbe soltanto una manciata di voti il partito dei reduci di Salò. Dal 1948 in avanti, cioè, la maggioranza del paese fu sempre, al tempo stesso, antifascista e anticomunista. Fu il paese di un moderatismo di massa refrattario alle sirene che venivano da Mosca, ma non meno refrattario ad ogni avventura nostalgica. Sono passati ormai decenni e non è cambiato molto.

In qualche modo, l’antifascismo è diventato la versione italiana della cancel culture, e ben prima della Ivy League. Ai piccoli gruppi di nostalgici che ancora oggi si radunano con la camicia nera e il saluto romano, corrispondono le piazze antifasciste, le mobilitazioni della Cgil, gli appelli dell’Anpi, che chiedono lotta continua al passato, come se il passato fosse presente. Che pretendono di cancellare la storia, come se la storia fosse materia viva. Che preferiscono l’allarme antifascista di un ben orchestrato 25 aprile alla puntuale critica delle politiche della destra (e ce ne sarebbero eccome).