È indubbio che, oggi più di ieri, anche a causa della scomparsa dei partiti tradizionali e del loro sistema di formazione e orientamento, esista un problema di selezione della classe dirigente. Per raccogliere le sfide della modernità, gli amministratori, a tutti i livelli, devono essere in grado di sviluppare una sempre maggiore professionalità nella gestione della cosa pubblica, possedere competenze sulle politiche di bilancio e sull’utilizzo dei fondi europei e conciliare la salvaguardia della struttura pubblica con l’iniziativa dei privati. Sono chiamati anche a costruire il consenso intorno a scelte strategiche. E non è una questione solo di nozioni, ma di consuetudine dell’agire politico e anche di militanza.
Affinché in nostro Paese- a partire dalle Regioni del Meridione – possa vincere le continue sfide di un mondo sempre più globale, è necessario, contestualmente, rinnovare il sistema di governo a partire dei territori. Gli Enti regionali, come realizzati dopo il 1970, non rispondono alle esigenze di un Paese moderno, non solo perché disegnati su perimetri amministrativi rigidi ed avulsi dai contesti storici e sociali, ma soprattutto perché sempre più appesantiti da una deriva gestionale che li rende autoreferenziali e inadeguati ai bisogni ed alle esigenze dei cittadini. Per questo motivo è stato giusto aprire, come sta facendo il Governo, una stagione di riforme istituzionali e Costituzionali. Come è noto il Titolo V avrebbe bisogno di una profonda manutenzione perché le più recenti modifiche non hanno risolto, se non aggravato, le molteplici contraddizioni esistenti, ma soprattutto perché nello specifico servono nuovi e più moderni meccanismi nel rapporto tra i poteri centrali e il sistema delle Autonomia.

Il gap tra Settentrione e Meridione d’Italia è ormai divenuto il più evidente e preoccupante d’Europa, tutti gli indicatori disponibili mostrano la regressione continua ed inesorabile del Mezzogiorno rispetto al resto della Penisola. L’emarginazione e la subalternità marcata del Meridione, riguarda da vicino l’equilibrio socio-economico generale dell’intera Nazione. Quindi abbiamo un problema nel problema. È inimmaginabile pensare che l’economia nazionale possa tornare ad essere competitiva in Europa senza affrontare la questione del gap tra Nord e Sud. Da questo punto di vista la scelta di affrontare il tema, a lungo messo in un angolo, dell’Autonomia differenziata rientra in questa sfida. Come abbiamo più volte sottolineato questo processo di riforma non è un male in sé, come sembra volere affermare la pubblicistica più recente, né deve essere uno scontro tra guelfi e ghibellini, tra il Sud e il Nord, quanto piuttosto una applicazione a regime di un precetto costituzionale. Un cambiamento che se ben realizzato, può portare ad un migliore equilibrio tra i vari territori, e ad averne i maggiori benefici sarebbe soprattutto il Mezzogiorno.
Un modello amministrativo più efficiente, capace di misurarsi con le nuove sfide, garantito da una completa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e da un sostenibile calcolo dei costi Standard.

Dobbiamo, in sintesi, trovare il modo di accrescere i livelli di produttività di sistema e dei fattori, realizzando quelle riforme che ne sono il logico presupposto. Il regionalismo a geometria variabile può determinare il superamento della prassi della spesa storica, logica perversa, che non riconosce e premia le buone pratiche e le performance ma lo status quo, il cui limite è duplice: da una parte favorisce chi ha sempre avuto, dall’altra impedisce di adottare le best practice nei territori che più ne hanno bisogno. Così chi fa bene può fare meglio, chi fa male è incentivato a fare peggio. Una classe dirigente messa difronte a questa cattiva prassi può solo peggiorare.
Invece il regionalismo a geometria variabile consentirebbe una maggiore efficienza ed economicità della programmazione e della coesione territoriale.
Si tratta di un processo di riorganizzazione territoriale volto, da un lato a valorizzare le funzioni di area vasta e dall’altro a razionalizzare le funzioni di coordinamento dello Stato. Le riforme e il cambiamento sono il concreto terreno di confronto e crescita della classe dirigente che se bloccata allo status quo difetta della capacità di “agenda setting” ma anche di ordinaria amministrazione.

L’ingegneria sociale e istituzionale può aiutare, ma non è mai risolutiva se non è animata dalla professionalità e competenza delle risorse umane propense alla sfida del cambiamento. In questi ultimi anni ho voluto rendere più sistematico un percorso di approfondimento su questi problemi promovendo, con l’Associazione “È SUd” Associazione per la coesione territoriale Aps”, che presiedo, un master di II livello in “Management e governance delle politiche di coesione e divario territoriale”, giunto alla sua seconda edizione. È il primo percorso di alta formazione post laurea realizzato, su questo argomento, in Italia. Il Master, erogato dall’Universitas Mercatorum e che ha come partner Dipartimenti universitari e Fondazioni, tratta i profili giuridici, economici, finanziari e manageriali nonché le metodologie che ispirano i programmi di spesa ordinari e straordinari. Il corso si avvale del contributo di numerosi docenti e tra questi anche molte personalità impegnate direttamente in incarichi di Governo e di Alta Amministrazione. Un circoscritto contributo per rendere sempre più ampia l’offerta di conoscenze e di competenze in attesa di un auspicabile percorso di riforme.

Stefano Caldoro

Autore