La discrezionalità del giudice
Gioielliere condannato, la legittima difesa e il risarcimento monstre a chi usa violenza
L’adattamento alla realtà deve avvenire in sintonia con la logica di fondo dell’istituto, ovvero quella di privilegiare e tutelare l’aggredito a scapito dell’aggressore
Il legislatore, nel disciplinare la legittima difesa, ha volutamente impiegato una terminologia elastica al fine di lasciare alla discrezionalità del giudice il suo adattamento alle infinite sfumature della realtà della vita. Tale adattamento deve avvenire in sintonia con la logica di fondo dell’istituto, che è quella di privilegiare e tutelare l’aggredito a scapito dell’aggressore. Espressioni quali necessità e proporzionalità della difesa, pericolo attuale, se lette secondo il vero scopo della norma, desumibile dalla circostanza che la reazione è considerata legittima anche se provocata dal grave turbamento determinato dalla situazione di pericolo reale o solo fondatamente immaginata, devono condurre il giudice a valutare i fatti mettendosi dalla parte dell’aggredito.
Il giudice deve osservare gli accadimenti ponendosi nella prospettiva psicologica ed emotiva della vittima dell’altrui violenza. Il giudicante deve fare ricorso a tutta la sua sensibilità e capacità introspettiva per sentire scorrere nelle vene la stessa adrenalina che ha obnubilato le capacità cognitive di chi patisce un’aggressione alla sua persona, ai suoi cari e alle fonti del suo sostentamento. Le corde dell’anima del giudice devono vibrare all’unisono con quelle del soggetto che si è difeso. Questo pretende una legge ormai chiarissima sul punto. Non rispetta la cosiddetta ratio della norma, il giudice il quale valuti i fatti col bilancino del chimico, limitandosi a svolgere una fredda operazione di laboratorio, senza sforzarsi di condividere quella tempesta emotiva che solo il confronto attento con lo sguardo straniato della vittima è in grado di restituire, al di là di parole e fermi immagine. La voce dell’imputato assume un ruolo fondamentale nella valutazione delle prove.
La descrizione dei suoi stati interni mentre si succedevano incessanti e veloci gli eventi, il timbro angosciato, ansiato e intenso del suo eloquio, gli occhi sbarrati, lucidi e ancora colmi di terrore, devono costituire la bussola attraverso cui il giudice è tenuto a esplorare e decifrare il significato dei frammenti di realtà affiorati nel processo. La recente condanna a 17 anni e al risarcimento di 400mila euro del gioielliere che ha reagito uccidendo due dei suoi aggressori, dunque, non convince. Pur rispettando, ovviamente, la decisione assunta in primo grado e nella doverosa attesa delle sue motivazioni, ci sembra che il video con cui sono stati ricostruiti i fatti sia stato analizzato in ossequio ad un approccio asettico, svincolato dalla percezione di chi era stato sorpreso e rapinato all’interno del suo negozio, di chi aveva assistito e subito impotente violenze e minacce a lui e alla sua famiglia, di chi si era visto sottrarre i frutti delle proprie fatiche con ì quale, peraltro, stava tentando di rimettersi in sesto dopo il lockdown.
Scomporre a tavolino la vorticosa evoluzione di avvenimenti unitari sul piano psicologico, attraverso frames ricavati da filmati afoni e incapaci di empatia, è operazione che sembra contrastare con lo spirito della legittima difesa, tutto improntato alla massima salvaguardia della persona dell’aggredito e alla comprensione del suo turbamento. Il gioielliere, perlomeno in tv, ha offerta una spiegazione lineare dei comportamenti serbati, alla luce del suo particolare angolo visuale di quel drammatico frangente di vita: non sapeva se la moglie fosse nelle mani dei rapinatori quando gli stessi sono usciti dal locale e hanno tentato di fuggire in macchina, non sapeva se chi gli aveva puntato la pistola contro detenesse un’arma giocattolo, non ha colpito chi era già in terra a modi esecuzione. Tutte parole e sensazioni che dovevano costituire il vademecum sulla base del quale guardare il video. In questo modo, come in un rapporto di reciproca e virtuosa circolarità, si doveva accertare l’attendibilità del gioielliere saggiandone la coerenza logica ed emotiva con le immagini e, viceversa, leggere quelle immagini verificando se il loro contenuto fosse compatibile con quella narrazione.
Quello che lascia viepiù perplessi è poi la previsione di un risarcimento così elevato, piuttosto inconsueto nelle aule di tribunale, che, francamente, appare difficilmente metabolizzabile anche da una collettività alla quale risulta complicato spiegare che bisogna dare 400mila euro a chi ti aveva usato violenza, minaccia, rapinato e, nella tua percezione, anche, forse, sequestrato la compagna di vita. E una giustizia che si distanzia troppo dal senso comune, che sfugge completamente alla comprensione dei più, finisce per essere ritenuta nemica e ingiusta. Infine, una notazione di contesto. Queste reazioni derivano dalla sensazione d’impunità (certamente alterata e non giustificata dai contenuti tassi di criminalità nel nostro paese) che spesso i cittadini avvertono in relazione a determinate categorie di reati e dalla sentita assenza della capacità o possibilità dello stato di apprestare efficaci strumenti di tutela preventiva. La cd giustizia di prossimità, quelle cioè che si dovrebbe concentrare sulla prevenzione e repressione degli illeciti forieri di autentici danni, materiali e morali, ai singoli, è trascurata perché ritenuta di serie B.
Svolgere indagini sui furti in abitazione, sui furti d’auto, sugli scippi, sulle piccole truffe, sulle rapine nei negozi o per strada, su chi affitta una casa con la fraudolenta intenzione di non pagare il canone, su chi viene malmenato al semaforo o in un locale, è attività’ impegnativa, che spesso non consente al magistrato di salire agli onori delle cronache, come la lotta a fenomeni impalpabili e astratti ma più remunerativi in termini di visibilità. Tuttavia, come ha giustamente notato il Ministro Nordio, il cittadino non dorme sonni più tranquilli se sa che la spada pende sulla testa dei colletti bianchi (come, beninteso, deve essere se necessario), ma perde invece il sonno se gli sottraggono l’auto, se gli entrano in casa, se gli rubano la pensione con cui tira avanti, la merce da vendere, la casa non ricevendo l’affitto, se finisce in ospedale col setto nasale rotto a botte, ecc.
Soprattutto i soggetti più fragili, che non possono acquistare una nuova auto, che non riescono ad arrivare a fine mese, che senza quell’affitto non possono mantenersi, che non possono permettersi costose cure ricostruttive, devono essere protetti dalla giustizia di prossimità. Certo, se gli sfratti venissero disposti ed eseguiti in tempi lampo, se chi ruba in un appartamento, chi ti rifila un pacco o ti mena, venisse adeguatamente perseguito, il turbamento di chi reagisce anche in preda alla frustrazione potrebbe essere valutato con maggiore rigore, ma al momento così non è. L’Italia è un paese sicuro, in cui i reati sono in calo, ma ciò non significa che non occorra attivarsi meglio per prevenire e reprimere fatti davvero dannosi per la sfera individuale, evitando la sensazione della necessità di una giustizia fai da te. Non condivido, quindi, tutte le critiche indirizzate anche dall’avvocatura al recente ddl sicurezza proposto dal Governo, poiché contiene previsioni che incentivano la giustizia di prossimità (pensiamo alle misure contro chi occupa case non pagando l’affitto e gettando nella rovina i proprietari), ovvero la giustizia davvero utile alla società e ai deboli (i ricchi si tutelano da soli), anche se lontana dai riflettori.
Nicola Madìa, avvocato e docente di diritto penale
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