Un intervistatore televisivo pone al rabbino capo Riccardo Di Segni una domanda apparentemente demenziale, ma che invece ha un suo perché: «Come vivete voi ebrei questa epidemia?». Di Segni, incredulo e sconsolato, allarga le braccia: «Ma come vuole che la vivano? Gli ebrei la vivono esattamente come chiunque altro, ebreo o non ebreo». Non era quello che si aspettava l’intervistatore che zitto zitto – aveva un suo itinerario mentale con cui dar senso al dissennato quesito. E lo lancia in coda, chiudendo l’intervista: «Certo che voi ebrei ne sapete qualcosa di queste storie! Quante volte nel passato vi hanno accusato di portare la peste così come oggi si fa con la Cina, quando si dice che la malattia viene dalla Cina, e che il coronavirus è cinese…».

Di Segni non poteva dire nulla e io ho spento come mi capita ogni giorno quando supero il livello di tolleranza per le bugie, le omissioni (posso sapere per prima cosa quanta gente è morta oggi?) e l’overdose di retorica per inni, trombette, tricolori, o sole mio, papi senza ombrello, eroi, trincee, avamposti, linea del fuoco. Ma fra tutte le retoriche, alcune perdonabili, ce n’è una che viene usata come barile di acido per dissolvere la verità: il divieto di ricordare che quel particolare Coronavirus che in Occidente è stato ribattezzato con il nome di codice “Covid-19” viene dalla Cina dove è nato e ha sempre vissuto come accessorio ambientale di una particolare varietà di pipistrelli, detta “Naso a ferro di cavallo”.

Lasciamo stare la questione degli esperimenti cinesi avvenuti nel 2015 su innesti di Sars (Severe Acute Respiratory Syndrom, cioè polmonite acuta) su quel particolare coronavirus che poi è diventato il Covid19. Quel che ci preoccupa è un altro elemento pandemico che emerge sempre più dal giornalismo televisivo: il divieto, accompagnato da una prefabbricata dose ideologica di sarcasmo e commiserazione nei confronti di chiunque si azzardi a ricordare la natura cinese di un virus cinese che ha appestato a lungo la Cina e che la Cina ha cercato di occultare mettendo le mani addosso a chiunque denunciasse l’epidemia, facendo così perdere tempo e ulteriori vite umane in Paesi come il nostro che si sono infettati senza sapere di che cosa si trattasse e come potesse essere combattuto e contenuto.

La Cina ha capovolto abilmente i ruoli esercitando una fortissima pressione politica e mediatica, impartendo una tassativa parola d’ordine, subito srotolata lungo tutte le vie della Seta: è vietato ricordare la cronologia degli ultimi quattro mesi. Il messaggio è passato senza trovare ostacoli, liscio come l’olio: la Cina non è e non è il Paese in cui l’epidemia è nata, si è sviluppata ed è sfuggita al controllo per poi devastare le nostre vite, ucciderci a decine e presto centinaia di migliaia, specialmente i più deboli.

Una ventata eugenetica è arrivata dall’Oriente: coloro che muoiono non sono delle vere vittime, ma degli incidenti statistici avariati perché fuori corso per età, o difetti come diabete, ipertensione, asma. Chiunque aggiunga l’aggettivo “cinese” all’epidemia, va dunque marchiato come razzista, oscurantista, aggressore, e pazzo furioso. Il messaggio del conduttore televisivo che ieri mattina si rivolgeva allo sbalordito rabbino capo Di Segni, andava dunque letto così: «Mi aiuti lei, che come ebreo se ne intende di ignobili accuse, a sdoganare la Cina dall’accusa di essere all’origine di questa pandemia». Di Segni, per fortuna, era fuori collegamento.

Ma fateci caso: non accade mai che qualcuno ricordi in qualsiasi televisione, che in Cina sono morti tutti coloro che avevano dato l’allarme a Wuhan e che erano stati bullizzati, a cominciare dal più popolare e noto di loro, il dottor Li Wenliang morto il 7 febbraio, seguito da Jiang Xueqing morto il primo marzo, Mei Zhongming e Zhu Heping e molti altri, come ricordava ieri il Foglio. Come risposta al loro allarme civile di medici, ricevettero la direttiva ideologica del Partito comunista cinese di «parlare di politica, parlare di disciplina e parlare di scienza». In due parole: zitti e mosca. Anzi: zitti e Bejing.

La nuova parola d’ordine è comunque passata con efficacia: non risulta più da nessuna parte che la Cina abbia avuto alcuna responsabilità, neanche cronologica, nella nascita e diffusione del virus che secondo la stessa Oms è nata nel “Wet Market” (mercati di pesce e animali vivi in condizioni igieniche intollerabili) di Wuhan.  La direttiva è attiva su tutti i canali comunicativi e politici incoraggiata con particolare entusiasmo dal nostro ministro degli Esteri, un autentico baco felice della via della Seta. I telegiornali si sono allineati al punto tale che quando Trump ricorda che il virus è partito dalla Cina e che il governo cinese ha taciuto per settimane condannando decine di migliaia di vite fuori dalla Cina, si si affrettano a sottolineare che Trump è probabilmente in preda di una delle sue crisi da pazzo furioso, perché “attacca la Cina”.

I conduttori di talk show sono avvertiti: eventuali scompostezze dei loro ospiti nei come la pretesa di ricordare la storia di questa epidemia, dovranno essere liquidate con espressioni di compatimento, suggerendo che si tratti di odio, razzismo e detestabile ingratitudine per un grande Paese che ci sta inviando (pagando s’intende) mascherine e respiratori con cui difenderci dal Covid19 comparso a dicembre nei mercati di animali vivi di Wuhan.

Se poi qualcuno ricordasse l’allarme della comunità scientifica internazionale per le ricerche cinesi del 2015 su un coronavirus usato come vettore per la Sars, costui va immediatamente messo a tacere come provocatore. Per me che appartengo alla generazione già scremata dal Covid-19 (e che dunque ha ancora un residuo di memoria) tutto ciò ha un delizioso sapore da madeleine proustiana: ecco a noi, ben tornato, il socialismo reale geneticamente modificato, e dunque finalmente realissimo. La Cina non è più vicina, secondo il titolo del noto film di Marco Bellocchio del 1967, ma è già dentro di noi e trasmette dai nostri teleschermi.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.