Il governo ha presentato, nei giorni scorsi, il Documento di Economia e Finanza (Def). Diversamente dalla prassi, quest’anno vi è contenuta solo la parte puramente previsionale. Ovvero la proiezione statistica “tendenziale” di come evolveranno i numeri attuali di Bilancio, a politiche costanti. Manca la parte “programmatica”, ovvero le scelte con le quali il governo intende correggere (o confermare) quei numeri. È successo solo poche altre volte, ma con governi tecnici o dimissionari. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha diplomaticamente definito il Def di quest’anno “asciutto”. Ma la mancanza della parte programmatica ha suscitato molti commenti negativi, del tipo: è una scatola vuota; il governo non sa che pesci prendere. In sostanza: manca la politica. Giusto. A meno che, essendo il governo per sua natura soggetto “politico”, la redazione di un Def senza scelte politiche non sia – essa stessa – una scelta politica. Per quali ragioni un esecutivo che gode di una solida maggioranza, e si trova a neanche metà legislatura, rinuncia a dire la propria su cosa intende fare? Il governo Meloni lo scorso anno, ancora fresco di elezioni, ha cercato di onorare le promesse fatte in campagna elettorale. Ma, viste le difficoltà finanziarie del Bilancio, le ha realizzate a tempo finanziando solo per un anno la manovra fiscale (cuneo e aliquote) e facendo votare al Parlamento una legge di Bilancio in deficit.

Oggi la situazione dei conti pubblici è molto precaria: il Pil non cresce come sperato e il debito resta troppo alto, come lo stesso Def riconosce. L’eccessivo costo del 110% è reale (anche se andrebbe calcolato il beneficio economico indotto da quella scelta, il cui vero errore è stato averla prorogata oltre misura). Il governo, e Giorgetti in particolare, ne fa buon uso per giustificare il fatto che dopo un anno e mezzo di legislatura non si vede inversione di tendenza sui conti. In ogni caso è impensabile ripetere anche quest’anno una manovra in deficit. Sicché Meloni e Giorgetti dovranno o trovare altre risorse, imponendo nuove tasse o maggiori tagli, o rinunciare a buona parte delle promesse. Ciò che il governo avrebbe dovuto dire nella parte programmatica, quella che manca, è esattamente come intende sciogliere questo dilemma. Qualsiasi sarà la scelta, non sarà indolore né socialmente né politicamente.

Evidentemente al governo è apparso troppo rischioso esplicitare le proprie intenzioni (o le proprie indecisioni) proprio a ridosso di un voto importante come quello europeo del 9 giugno. Si tratta, dunque, di un rinvio tattico? Non solo. Dopo le elezioni del 9 giugno scatterà la discussione sul nuovo Patto di stabilità europeo. Il governo ha già preso le distanze dalle nuove regole. Così, quando dovrà fare i conti con il piano di rientro del debito, l’esecutivo avrà un ulteriore argomento (oltre al bonus) per scaricare altrove le proprie responsabilità. Nel caso del 110% sui governi precedenti, nel caso del nuovo Patto di stabilità sull’Europa. Nel comunicato di Palazzo Chigi già si attribuisce a ciò l’assenza del quadro programmatico nel Def. A Giorgetti non resta che sperare in un calo dei tassi a giugno: in tal caso la pressione degli interessi sul debito almeno un po’ si allenterebbe. Se così dovesse essere, la scelta di non scegliere potrebbe essere meno congiunturale di quanto appaia con questo Def; dunque non possiamo escludere di trovarci tra qualche mese con una legge di Bilancio anch’essa “asciutta”. Nella speranza di tempi migliori.

Questa scelta rischia di lasciare il Paese scoperto verso l’Europa e, di conseguenza, in balia dei mercati. Ma il rischio è molto maggiore per il Sud. Il Mezzogiorno sta vivendo una fase di transizione economica e sociale particolarmente interessante. A una debolezza strutturale di infrastrutture (alla quale, in parte si sta facendo fronte con il Pnrr) e a una presenza industriale a macchia di leopardo, ma ricca di filiere competitive a livello internazionale (agroalimentare, digitale, meccanica leggera, spettacolo e cultura) che vanno sostenute, si sta affiancando una esplosione turistica clamorosa. In taluni casi addirittura invasiva. Napoli ne è capofila. Possiamo dire che, nel quadro problematico generale, nel Sud si sta vivendo una fase nella quale le potenzialità pareggiano le difficoltà. In questo passaggio, che va orientato verso una crescita diffusa e stabile, servono politiche economiche incentivanti e coraggiose. Il 40% del Pnrr sta procedendo, ma da solo non basta. Soprattutto se a causa di una inerzia governativa, come quella manifestata nel Def, si inseriranno riduzioni dei trasferimenti o – peggio – tagli sociali che, in un contesto ancora carico di maggior disagio rispetto al Nord, produrranno effetti più negativi che in altre parti del Paese. Anche perché, in assenza di una politica economica anticiclica e meridionalista, il dibattito politico Nord-Sud sarà tutto sovrastrutturale, incentrato, di fatto, sulla riforma Calderoli.

 

Pier Paolo Baretta

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