Domenico Papalia è in carcere da oltre quarantatré anni. Dal 1977. Gli addetti ai lavori sanno che a questi vanno aggiunti quelli per la liberazione anticipata, perché le persone, tante, diverse, alle quali lo Stato attribuisce la funzione di farlo – i Magistrati di Sorveglianza – hanno ripetutamente concluso che gli andasse riconosciuta. Per il nostro ordinamento son dunque quasi cinquant’anni. Una eternità. È anziano, ricoverato in un Centro clinico con malattie conclamate. Lontano da sempre dalla sua famiglia. Quasi un fantasma. Ma il senso della istanza di grazia non è questo. Qual è oggi la finalità della sua detenzione? La funzione rieducativa della pena e la Costituzione hanno fallito con Domenico Papalia?

Sta scontando la pena complessiva dell’ergastolo con isolamento diurno per due gravi omicidi degli anni 80 e 90. Larga parte del mondo per simili condanne non ha dubbi: deve finire la sua vita in carcere. Per la nostra Costituzione, no. È razionale e forte come lo Stato di diritto: se una pena non ha più significato perché ha raggiunto lo scopo, la rieducazione del condannato, allora deve essere modificata, attualizzata. Non farlo significa svuotarla di significato, cambiarne i connotati, trasformarla da strumento di rieducazione finalizzato al reinserimento sociale, a mezzo contro la dignità dell’uomo in quanto tale, cui è negata ogni possibilità di riscatto. Una barbarie che lusinga molti, solo perché non conoscono le profonde radici della nostra Costituzione. Il carcere è un mondo lontano che ci separa dagli “altri”. Lasciamo gli “altri” lì per sempre. È una soluzione tranquillizzante. Di pochi giorni fa l’ordinanza di rigetto della istanza di liberazione condizionale. Dice che non si è “ravveduto” rispetto ai due omicidi per i quali è in espiazione pena. Si può iniziare una revisione critica per reati per i quali ci si proclama innocente?

Forse non c’è più modo di dimostrarlo, forse non c’è mai stato. Perché le sue condanne all’ergastolo sono fondate su dichiarazioni di pentiti, dichiarazioni contraddittorie ma, evidentemente, convincenti. Le sentenze vanno rispettate, su questo non v’è dubbio alcuno, a meno che non sia percorribile una revisione. Difficile, molto difficile quando c’è il baluardo protettivo delle dichiarazioni dei pentiti. Fatti troppo risalenti nel tempo. Si tratta ormai di decenni. Per un’altra condanna a pena perpetua che Papalia stava espiando, invece, oltre ai pentiti c’era una prova scientifica, una perizia balistica. Nel 2017, adeguando quella prova alle cognizioni tecniche attuali, Papalia è stato dichiarato innocente.
Ma una assoluzione con prova oggettiva non vale altre due condanne con prove deboli. Non sappiamo se conosceremo mai che cosa accadde davvero in quelle stagioni così lontane, buie, inesplorabili. Sappiamo quello che esiste oggi. Un uomo che ha trascorso tutta la sua vita in carcere; ha varcato quella soglia da analfabeta e si è iscritto all’università. Nel 1993 ha perso in un tragico incidente il figlio di diciotto anni, decidendo dal carcere, dramma nel dramma, di donarne gli organi. Un gesto lontano anche dalla cultura dominante dell’epoca, una scelta profonda e difficile che, sin da allora, dà il segno di cambiamento dell’uomo.

Quel più conta è che oggi nessuno può ritenere la sua pericolosità. Anche quando genericamente prospettata, è stata smentita da provvedimenti giurisdizionali. Per questo la sua famiglia ha chiesto per lui la grazia parziale, non per azzerare il suo passato, ma per trasformare una pena perpetua e senza speranza come l’ergastolo in una temporanea, nella misura massima che il nostro ordinamento prevede, trent’anni, per la semplice ragione che quella pena ha raggiunto il suo scopo.

Annarita Franchi, Ambra Giovene

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