Domenico è in carcere da oltre quarantatré anni. È entrato nel marzo del 1977, a 32 anni. Oggi ne ha 75. È nato in uno di quei comuni della Calabria che pone un marchio indelebile sulla carta d’identità. Segni particolari: nato a Platì. È già una condanna, preventiva, che attende solo il timbro di un tribunale per diventare una pena, detentiva. Se, poi, al luogo di nascita associ un cognome, la pena diventa ostativa a ogni istanza di grazia e giustizia. E Domenico, di cognome, fa Papalia. Quarantatré anni sono tanti. E sono ancora di più, oltre cinquanta, se si contano anche gli anni di “liberazione anticipata” per buona condotta che lo Stato – conscio della realtà delle sue prigioni – calcola come sofferti e somma al “presofferto” effettivo.

Si può dire che Domenico è in carcere da una vita, da mezzo secolo, da due generazioni. Una vita in galera merita una riflessione. Su chi è diventato Papalia dopo mezzo secolo e su cosa diventa uno Stato quando priva un uomo della libertà per mezzo secolo.  Tutte le relazioni comportamentali danno atto del suo miglioramento e della rottura con logiche criminali. Entra in carcere analfabeta e arriva a frequentare l’Università.  Mezzo secolo, due generazioni. Una, Domenico la vede sfumare per una disgrazia peggiore della perdita della libertà: la morte del figlio Pasqualino, colpito da un proiettile rimbalzato sulla campana della chiesa di Platì la notte di Capodanno del 1993. È la prova che nessuno vorrebbe mai vivere e di fronte alla quale ogni ingiustizia subita e ogni sofferenza patita sono poca cosa. Domenico si libera da un dolore insopportabile facendo del bene. Il padre onora la morte del figlio con un gesto d’amore. Decide di donare gli organi dell’unico figlio maschio. Da allora, la conversione del male per sé in bene per altri diventa pratica quotidiana.

La nonviolenza diventa la sua religione. Il partito di Marco Pannella diventa la sua fede politica. Papalia è tra i pochi iscritti al Partito Radicale quasi ininterrottamente dal 1990. Oggi Domenico testimonia la nonviolenza, anima e incarna il suo cambiamento nei laboratori “Spes contra spem” di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Parma, nei quali continua la sua opera di conversione, fa emergere una coscienza totalmente orientata ai valori umani, al bene, all’amore da offrire come arma di riscatto.  Sono testimoni del suo cambiamento direttori, agenti, detenuti che lo hanno conosciuto e che ci hanno detto di lui nei vari istituti dove ci siamo recati. La loro parola allontana ogni ombra che possa far pensare a una sua attuale pericolosità.  Per questo, una richiesta di grazia parziale, volta alla commutazione della pena dell’ergastolo in quella di anni trenta di reclusione, è stata presentata il 29 gennaio 2018. Ma, dopo oltre due anni, ancora non sappiamo nulla dello stato della istruttoria al Ministero della Giustizia mentre siamo a conoscenza del fatto che quella del magistrato di sorveglianza di Cagliari, cui l’istanza è stata presentata, è stata completata.

Già nel ‘93, Ferdinando Imposimato, convinto della innocenza dell’uomo che ha rinviato a giudizio, leva la sua voce a favore della grazia per Domenico Papalia. Imposimato sostiene l’iniziativa assieme a Francesco Catanzariti, storico sindacalista della Cgil e una vita in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta. Voci profetiche che preludono all’assoluzione, decisa tre anni fa alla Corte d’Appello di Perugia, dalla condanna all’ergastolo per l’omicidio di Antonio D’Agostino, una delle tre condanne definitive per omicidio che lo hanno tenuto in carcere per tutti questi anni.  Condanne che si riferiscono a fatti antecedenti al 1990 ma che, per interpretazione giurisprudenziale retroattiva, ricadono nell’ostatività introdotta nell’ordinamento penitenziario nel 1991. Così, l’uomo che per buona condotta esce in permesso premio, rispetta sempre le prescrizioni, va in ospedale senza scorta e lavora all’esterno senza mai porre alcun problema, si vede imporre all’improvviso un blocco automatico a ogni progressione trattamentale. Un blocco che, però, nel tempo si trasforma in un lasciapassare alla progressione dell’aggravamento delle sue condizioni di salute.

Una relazione medica illustra un quadro clinico generale compromesso e peggiorato nel corso della sua lunga detenzione: concreto rischio di arresto cardiaco con esito infausto, apnee notturne di natura ostruttiva, riduzione delle basi polmonari, cardiopatia ischemico ipertensiva come ulteriore complicanza di diabete mellito. Un quadro clinico che rende Papalia, non solo specificamente vulnerabile all’eventuale contrazione del coronavirus, ma anche assolutamente bisognoso di interventi urgenti e non più derogabili, che possono essere assicurati solo fuori dal carcere, essendo la sua detenzione – conclude la relazione medica – “un deterrente alle cure dovute”.

Sono consapevole dell’attuale clima, mediatico e politico, che inquina l’idea di giustizia con quella di vendetta al punto da diventare intimidatorio rispetto a ogni atto di buon senso. Ma sono convinta che ci sono momenti nel corso dell’esistenza tanto degli esseri umani quanto delle istituzioni, che gli uomini – tutti! – rappresentano, in cui anche le prove di forza più dure, quelle che trascinano tutto e tutti negli inferi, arrivano ad un momento in cui l’evoluzione si impone. Vale per la storia di un Paese che ha vissuto solo di stati di emergenza, in cui a emergere – soprattutto in Calabria – è stato un regime pieno e incontrollato di leggi, processi e carceri speciali.

Vale per la storia di un uomo indiscutibilmente cambiato nel corso della pena, ma che rischia oggi di morire nelle mani di uno Stato che ha abolito la pena di morte ma che continua a praticare la morte per pena e la pena fino alla morte. E allora, la concessione della grazia, seppur parziale per Domenico Papalia, diventa il momento propizio per far guadagnare allo Stato la forza propria dello Stato di Diritto, per far esprimere allo Stato tutto il suo talento, parola greca che richiama la bilancia, simbolo della Giustizia, equilibrata dalla clemenza.