Prevenire a tutti i costi la diffusione del Covid-19 in carcere è urgente e necessario. In questi giorni lo abbiamo ripetuto molte volte, e non solo noi. Da ultimi anche il Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura ed il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno aggiunto la propria voce al coro, invitando i governi ad adottare al più presto tutte le misure possibili di prevenzione, compresa la riduzione del numero dei detenuti. Il rischio è che le carceri diventino focolai di diffusione del virus, con conseguenze drammatiche per chi in carcere vive e lavora, ma anche per le comunità di cui il carcere è parte.

In Italia ormai il virus in carcere è arrivato. Ad oggi hanno già perso la vita un detenuto a Bologna, un agente di polizia penitenziaria in servizio a Milano ed un medico a Brescia, e sono ormai decine i contagi tra agenti e detenuti. La situazione peraltro è destinata a peggiorare. Era infatti prevedibile che il carcere, comunità separata per definizione, venisse raggiunto dal contagio più tardi rispetto ad altri luoghi. Ma anche altre cose sono altrettanto scontate. Ad esempio, anche in carcere non tutte le persone sono uguali: molti i detenuti sono in età avanzata, o si trovano in condizioni di salute che renderebbero nel loro caso il contagio molto più pericoloso.

Ma, soprattutto, il carcere non è un posto come gli altri. Non ci si può sentire al sicuro nella propria cella come in casa propria, perché la si condivide con estranei assieme ai quali si sta pigiati in pochi metri quadri per quasi tutta la giornata. E quando dalla cella si esce ci si sposta in altri spazi altrettanto circoscritti creando assembramenti che farebbero inorridire qualunque sindaco.  In carcere continuano inoltre i nuovi ingressi, che si tratti di persone appena arrestate o trasferite da altri istituti. Infatti, se di norma noi tutti non possiamo uscire dal nostro comune, i detenuti continuano in qualche misura a viaggiare da un istituto all’altro, generalmente da quelli dove c’è meno spazio a quelli dove c’è n’è di più, specie quando serve far posto a persone appena entrate o infette.

Per tutte queste ragioni è ovvio prevedere che, mentre il paese sembra avvicinarsi all’apice della curva del contagio, questa in carcere ha appena iniziato a crescere. In tutto questo è chiaro che il sovraffollamento è uno dei nemici più temibili. E purtroppo l’Italia da questo punto di vista è un paese da record. Ce lo ricorda oggi il Consiglio d’Europa, che ha pubblicato l’ultimo rapporto sulle statistiche penitenziarie dei paesi membri. I dati sono aggiornati a gennaio 2019, ma evidenziano come da noi la popolazione detenuta sia negli ultimi anni cresciuta, facendo dell’Italia il paese più sovraffollato del continente dopo la Turchia e il Belgio.

Il rapporto cita un tasso di affollamento del 119 per cento, ma si tenga tra l’altro presente che quello era un dato nazionale medio. Nelle regioni più colpite dall’infezione, come la Lombardia o l’Emilia-Romagna, il tasso di affollamento a fine febbraio del 2020 era rispettivamente del 140 e 130 per cento. Da allora i numeri sono scesi, ma come abbiamo detto i contagi stanno aumentando e vanno prese immediatamente misure più decise. È necessario liberare più posti facendo uscire i detenuti a fine pena o quelli in condizioni di salute precarie, senza pretendere di adottare oggi, in una situazione di assoluta emergenza, braccialetti elettronici di cui fino a ieri pareva non avessimo nessun bisogno (non a caso non ne abbiamo).

E bisogna impedire ad ogni costo i nuovi ingressi. Questo compito non riguarda per fortuna solo il governo, che peraltro sul tema ad oggi ha fatto molto poco, ma impegna anche la magistratura di sorveglianza, le procure e le direzioni delle carceri, ed è soprattutto grazie al loro sforzo che le presenze in carcere sono calate fino ad oggi. Ma tutto questo chiaramente non basta e da qui in poi sarà la comunità penitenziaria a pagare il conto di questo ritardo.

 

FIRMA L’APPELLO: http://bit.ly/DRAMMA_CARCERI