Cronaca di una morte annunciata. Attesa. Programmata. Incatenata dalle maglie strette dei carcerieri all’implacabile crudeltà del tempo. È deceduto ieri mattina a Bologna il primo detenuto che ha contratto in carcere il Covid-19. Si chiamava Vincenzo Sucato, aveva 76 anni ed era “ristretto” da dicembre 2018 per associazione mafiosa, con misura cautelare in attesa del giudizio di primo grado dopo essere stato arrestato su ordine del Gip di Termini Imerese (Palermo) nell’ambito dell’operazione Cupola 2.0. Era arrivato nel carcere bolognese della Dozza ad agosto 2019 e veniva considerato il reggente della famiglia mafiosa di Misilmeri. Sembra fosse affetto da altre patologie. È stato ricoverato in ospedale il 26 marzo per plurime patologie, tra le quali lamentava forti difficoltà respiratorie. Entrato in ospedale, dunque, non come paziente Covid-19, è stato comunque sottoposto a tampone, risultando positivo.

Nel frattempo, il 28, ha avuto, su decisione del giudice siciliano, gli arresti domiciliari in ospedale. «Era in cella con un altro detenuto, asintomatico, che è in isolamento in carcere, così come le altre persone che avevano avuto contatti con lui», spiega Antonietta Fiorillo, presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna. Ulteriori dettagli sono stati forniti da Raffaella Campalastri, direttrice sanitaria del carcere: «Solo un agente è risultato positivo ma per contatti esterni. Dei 92 detenuti solo 2 sono positivi asintomatici, posti in isolamento nel raggio infermieristico dedicato a Covid. Invece, i compagni di cella sono in isolamento fiduciario. Fra i detenuti 2 hanno mostrato sintomatologia, uno ai domiciliari e uno è ancora ricoverato per accertamenti e cura».

La direttrice Claudia Clementi rende noto che il suo è «l’unico carcere italiano in cui si sono fatti tanti tamponi»; pochi e “fatti a caso” per i sindacati di Polizia penitenziaria.  Per quanto riguarda il numero di tamponi fatti a detenuti e agenti del carcere bolognese della Dozza, dove la scorsa settimana, fa sapere Clementi, «ne sono stati eseguiti 150, di cui 58 agli agenti e 92 ai detenuti». Nel dettaglio, spiega la direttrice, finora «solo un agente è risultato positivo, a causa di un contatto personale non legato al lavoro, ed è in quarantena, e oltre a lui altri tre poliziotti sono in isolamento perché hanno avuto contatti con detenuti risultati positivi, comunque asintomatici». Sul fronte dei reclusi, prosegue Clementi, «ad oggi i positivi sono due, entrambi asintomatici e in isolamento, e altri quattro che hanno avuto contatti con loro sono in isolamento fiduciario». Dunque, chiosa la direttrice, «direi che al momento la situazione è monitorata». Concorda la direttrice sanitaria Raffaella Campalastri: «Il monitoraggio è costante, e proprio ieri abbiamo fatto una sorta di informativa ai detenuti che avevano fatto il tampone, dando loro tutte le spiegazioni del caso, anche per diminuire le loro ansie», e inoltre sono stati «subito sanificati gli ambienti in cui lavorava il personale risultato positivo». Rimangono, impietosi, i numeri: 58 test su 450 agenti effettivi sono irrisori. E il giallo sulla reale entità dei contagiati corre tra i corridoi del carcere.

I numeri reali alla Dozza sembrano essere ben diversi. Fonti interne parlano di quel carcere come “epicentro della tragedia”, con 19 tra operatori sanitari e medici infetti, i locali dell’infermeria del tutto inagibili dopo i disordini scoppiati due settimane fa e verosimilmente un numero molto alto di casi.  L’avvocato Romolo Reboa è sul piede di guerra: «I detenuti sono polli in un pollaio ad alta densità virale. Chi ha visto come vivono i detenuti, si domanda semmai come mai nelle carceri possano resistere dei soggetti». Il cappellano della casa circondariale bolognese, Don Marcello Matté, parla con il Riformista: «È chiaro che in una situazione sovraffollata come quella della Dozza, se il virus entra può causare una strage».

Però non può darci notizie recenti. «Non mi fanno più entrare: dai disordini del 9 marzo a me non è più stato consentito di fare ingresso nel carcere, ed è la prima volta che questo accade». Protesta anche Maldarizzi della Uilpa, Polizia penitenziaria: «Nei giorni della rivolta molti di noi erano privi di dispositivi di sicurezza, e successivamente, come ci è stato detto oggi, 15 infermieri e otto medici sono risultati positivi». Anche gli agenti chiedono di fare il test. La malattia non conosce celle, né sbarre. Tutta la comunità carceraria è oggi a rischio.

 

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.