Da Papa Francesco al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal procuratore generale della Corte di Cassazione all’Organizzazione mondiale della sanità, tutti sono concordi: il sovraffollamento delle carceri è una spada di Damocle che pende sulla testa dell’intera società alle prese con la pandemia.

Le condizioni di vita dei detenuti, in particolare di quelli italiani, funzionano da moltiplicatore in caso di contagio, con il rischio di innescare una vera e proprio strage. L’evidenza è sotto gli occhi di tutti ma per il direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio le cose non stanno così. “Oggi stare in carcere è molto più sicuro che stare fuori” scrive nel suo editoriale snocciolando alcuni dati. “Su 57.097 detenuti – spiega -si registravano 32 contagiati (di cui 4 ricoverati in ospedale) e 1 morto (in ospedale). Dunque i dati ufficiali (che ignorano i contagiati asintomatici, inconsapevoli e non certificati dal tampone) dicono che il Covid-19 infetta lo 0,16% dei non detenuti e lo 0,05% dei detenuti”.

Alla luce di questo, quindi, per il direttore Travaglio vale la pena rischiare una possibile pandemia nella pandemia anziché ricorrere alle misure alternative alla detenzione che assicurerebbero una maggiore tutela per la salute dei detenuti e di tutti coloro che lavorano degli istituti di detenzione.

Come ricordato nello stesso editoriale, infatti, tra i soggetti a rischio ci sono anche gli agenti della polizia penitenziaria: 145 di questi risultati positivi al Covid-19, su un totale di 38mila. Quello che il direttore Travaglio non dice, però, è che questo è un dato allarmante. Rapportato con il numero di contagiati totali nel nostro Paese, infatti, è chiaro che tra gli agenti la percentuale di chi ha contratto il virus è doppia rispetto a chi è fuori dagli istituti penitenziari. E già solo questo sarebbe un dato sufficiente per capire perché stare in carcere oggi non è affatto più sicuro.