Ora chi si fa da parte?
Guai a dire dimissioni: da Landini a Conte, da Schlein a Gravina, i flop li pagano gli altri…
Referendum boomerang, voleva essere una conta contro il governo, è diventata contro Landini, Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni. Qualcuno si dimetterà? Ne dubitiamo
Ci sono sempre i manager che quando un prodotto non piace danno la colpa ai consumatori che non lo hanno “capito”. Sono i dirigenti di cui un imprenditore potrebbe fare tranquillamente a meno. Un po’ come i politici che si ostinano a dipingere un elettorato che non esiste, immaginando bisogni che non ci sono, domande che non sono mai state formulate. Dopo il penta-referendum di domenica e lunedì scorsi – con un’affluenza sotto il 30% – qualcuno dei promotori dovrebbe farsi da parte?
I casi sporadici Renzi e D’Alema
La parola dimissioni, in Italia, non è facile da articolare. Metterci la faccia è abbastanza facile, quando il “lato B” è saldamente imbullonato a qualche poltrona di prestigio. La faccia può ricevere ogni tipo di oltraggio, ma raramente sufficiente a rimuovere l’attaccamento al luogo in cui ci si trova comodamente seduti. Oddio, qualche nobile caso, che dimostra il contrario, c’è stato. Massimo D’Alema nel 2000 si assunse l’onere della sconfitta della sua coalizione alle regionali, pur potendo fare tutti i distinguo del caso tra il Governo da lui presieduto e la maggioranza politica sconfitta sul territorio. Qualche anno dopo Matteo Renzi, dopo aver personalizzato oltre misura il referendum sulla riforma costituzionale, bocciata nel 2016, decise di dimettersi da presidente del Consiglio, uscendosene con una battuta delle sue: “Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta. Volevo ridurre il numero delle poltrone: la poltrona che salta è la mia”.
Ecco, casi sporadici, che diventano memorabili. Oggi, all’indomani di una sconfitta politica di proporzioni colossali – la coalizione del “sì” non è riuscita a portare al seggio nemmeno i potenziali elettori che provenissero dalla semplice sommatoria di Pd, M5S, l’altra sinistra di Bonelli e Fratoianni (Avs), con l’aggiunta del nuovo partito in pectore targato Cgil – sarebbe lecito aspettarsi delle dimissioni?
Prima ancora di riflettere sulle dimissioni, sarebbe anche utile chiedersi quale credibilità politica ci sia in chi elabora una battaglia politica, centellinando cinque quesiti referendari che avrebbero dovuto toccare la carne viva dell’elettorato italiano: questioni che riguardano il mercato del lavoro e una questione sul diritto di cittadinanza. Gli uffici studi di Cgil e dei partiti promotori avranno fatto studi e simulazioni, avranno riflettuto sull’imponente deflagrazione che sarebbe stata determinata dalla rivoluzione contro il “jobs act” e dalla resurrezione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Politici, professori, sindacalisti, opinion maker hanno trascorso forse notti in bianco per definire il perimetro delle questioni da sottoporre ai cittadini italiani. Risultato: 7 italiani su 10 non hanno ritenuto nemmeno opportuno esprimersi sui quesiti.
Troppo tecnici? Ma nemmeno. Probabilmente gli italiani, la stragrande maggioranza di loro, non crede alle ragioni di chi vorrebbe una regolazione ipertrofica e soffocante del mercato del lavoro. Gli italiani vogliono un po’ di Far West in più? Forse, a condizione di poter godere di qualche libertà in più. I dati sono questi. O sbaglia la stragrande maggioranza dei cittadini del nostro Paese, o sbagliano i dirigenti di partito e di sindacati che si sono creduti interpreti dei sentimenti più profondi del nostro elettorato. È stato un referendum contro il Governo? Così lo hanno presentato alcuni del gruppo dei promotori. Allora avrebbe ragione Giovanbattista Fazzolari nel sintetizzare così: “Il Governo è più forte”. Diciamo due cose. Primo: se il Governo fosse più forte potrebbe cogliere la palla al balzo e procedere speditamente a liberalizzare e delegificare: agli italiani non piacciono gli orpelli ideologici. Chiaro? Secondo: se il Governo fosse più forte potrebbe (dovrebbe?) sollecitare una sanzione nei confronti di chi ha violato il silenzio elettorale, trincerandosi dietro una manifestazione umanitaria in favore dei palestinesi di Gaza.
Guai a dire dimissioni…
Di sicuro è stato un referendum contro Maurizio Landini, contro Elly Schlein, contro Giuseppe Conte, contro Angelo Bonelli, contro Nicola Fratoianni. Qualcuno di loro si dimetterà? Ne dubitiamo. Ma allora perché dovrebbe dimettersi Gabriele Gravina, presidente della Figc? Soltanto perché per la terza volta consecutiva l’Italia del pallone rischia di non andare ai Campionati mondiali? Il suo predecessore, Carlo Tavecchio se ne andò. Lui Gravina, resta. Meglio esonerare Luciano Spalletti, che da Gravina era stato scelto, meno di due anni fa.
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