Questa raccolta di racconti brevi collegati tra loro, come spiegheremo, del grande Isaac Bashevis Singer,Alla corte di mio padre“, (Adelphi, traduzione di Silvia Pareschi) nella sua leggerezza è pregna di cultura e di umanità.

È tipico dei grandi scrittori iniettare temi alti in un corpo letterario apparentemente esile, ed è ciò che fa Singer, autore di capolavori come ” La famiglia Moskat” o “Keyla la rossa”, premio Nobel nel 1978. Dunque, questa è una fila di episodi ambientati soprattutto a Varsavia, narrati dal figlio di un rabbino che è una specie di giudice: lui origlia le peripezie, le dispute, le liti che prendono vita nello studio del padre che, nella vita reale, gestiva in casa un Beth Din, una corte rabbinica, «una specie di connubio fra tribunale, sinagoga, casa di studio e, se vogliamo, lettino dello psicanalista, dove chi aveva l’animo turbato poteva venire a sfogarsi».

Il padre-giudice, che a volte si fa pagare e altre no, deve esprimersi alla luce della Tōrāh e delle leggi ebraiche su cosa sia giusto e cosa no, chi abbia ragione e chi torto, si tratti di matrimonio, di compravendite, di affari di qualsiasi tipo. «Il litigio d’affari con quegli uomini danarosi lo costringeva a sottrarre tempo alla Tōrāh, e non vedeva l’ora di tornare ai suoi scritti e commentari. Ancora una volta il mondo, con i suoi calcoli e le sue falsità, si era intromesso nella nostra vita», scrive il ragazzo.

Sullo sfondo dei rumori della Prima guerra mondialeVarsavia stava per finire nelle mani della Germania»), scorre perciò davanti al figlio del rabbino tutta una umanità con il suo carico di cattiverie, stranezze e ingiustizie, di bene e di male in un caleidoscopio terreno a cospetto della Verità religiosa. È una vita difficile in una città che da polacca diventa russa e poi tedesca: «La cosa più dura da sopportare in quel periodo era il freddo, e noi non potevamo permetterci di riscaldare l’appartamento. I tubi si congelavano ed era impossibile usare il gabinetto. Per settimane i vetri delle nostre finestre erano decorati da reticoli di brina, mentre dai telai pendevano ghiaccioli. Quando avevo sete ne staccavo uno e lo succhiavo».

Il tutto viene raccontato con la soavità e la classicità di quella grande letteratura ebraica di cui I. B. Singer, come il fratello Israel (“La famiglia Karnowski“) è assai rappresentativo. E noi che leggiamo quelle storie veniamo catapultati in quella casa della via Krochmalna, che prende il nome dalle lavanderie ebraiche (in polacco “krochmal” significa “amido”) che si trovano sulla strada: e forse, oltre gli indumenti, su quella via si lavano anche i peccati, per quanto possibile.