Rileggere Ombre sullo Hudson di Isaac Bashevis Singer, ventuno anni dopo la sua prima pubblicazione italiana (Longanesi, 2000, traduzione dall’inglese di Mario Biondi), nella nuova versione di Valentina Parisi pubblicata da Adelphi (pp. 633, 24 euro), che sta riproponendo, a cura di Elisabetta Zevi, tutta l’opera del grande scrittore polacco naturalizzato americano, è come rivedere un vecchio amico al quale siamo affezionati trovandolo paradossalmente ringiovanito e ancora in grado di incantarci con le sue battute spesso irriverenti ma sempre geniali, miste alle riflessioni filosofiche sulla vita come vorremmo che fosse e come invece è per davvero, incarnate da un indimenticabile personaggio: Herz Grein, sorta di allucinato alter ego dell’autore.

Mezzo diavolo e mezzo santo, allo stesso tempo moralista e dissoluto, sempre in bilico fra rigore e intemperanza, ordine e anarchia, fede e vanità. Coi figli non riesce nemmeno a parlare; ormai loro sono yankees mentre lui resta profondamente polacco, anche se non sembra. Con la moglie da tempo ha smesso di dialogare. Le amanti lo vezzeggiano ma riescono infine a metterlo al muro di fronte alle sue responsabilità. Cos’è il mondo se non un fantastico gioco a premi dove perfino chi vince è destinato a perdere? Stiamo parlando di un’opera canovaccio da cui discendono non dico tutte le altre singeriane, ma molte delle successive composte negli Stati Uniti: inizialmente stampata a puntate a New York dal 1957 al 1958 sul “Forverts”, storico quotidiano in lingua yiddish dove le migliaia di immigrati ebrei sfuggiti dalle grinfie hitleriane avevano trovato una seconda famiglia, è il racconto delle avventure sentimentali di Grein, coniugali ed extraconiugali, sullo sfondo della metropoli in riva all’oceano.

Diviso e conteso fra la legittima consorte Leah, che si ammala di cancro, l’amante Esther, bellissima strega, e la vecchia e nuova fiamma Anna, sottratta al marito Stanislaw Luria il quale morirà per la vergogna, questo memorabile avventuriero, ex rabbino affascinato da Wall Street, rompe e stringe legami alla perpetua ricerca di un equilibrio che non troverà mai, forse nemmeno quando, affranto e disilluso, finirà a Gerusalemme, nel quartiere ortodosso di Meah Shearim. Sin dall’inizio, nel momento in cui lo vediamo aggirarsi nell’appartamento di Boris Makaver, con le doppie finestre che affacciano su Broadway e sul cortile interno, registriamo la drammatica scissione della sua esistenza: da una parte i neon scintillanti del mondo nuovo, dall’altra le erbacce incolte che fanno pensare ai trascorsi condomini di Varsavia. Confrontando la propria giovinezza di studioso e devoto, figlio di Reb Yaakov Moshe lo Scriba, alle scorribande da sfrenato libertino in cui s’invischia nella terra che l’ha salvato dallo sterminio, gli viene quasi da piangere: «Senza Dio ci si annoia. La fede è l’unica cosa che ci salva dalla follia. Perché tutto è più noioso per me di quanto non fosse per mio padre? Oltre alla famiglia e alla casa di preghiera, lui non aveva niente. Niente radio, niente cinema, niente giornali. La sua biblioteca, ammesso che la si potesse chiamare così, era composta da qualche libro sacro. Eppure non l’ho mai sentito dire che si annoiava».

Questa fu anche la storia di Isaac Singer, premio Nobel per la Letteratura nel 1978: la notizia gli venne comunicata mentre stava pranzando con la moglie Alma, ebrea tedesca che gli restò accanto fino all’ultimo, in una delle sue amate rosticcerie dove godeva dei segreti splendori dell’anonimato. Nato nel 1904 in un villaggio a pochi chilometri dalla capitale polacca, emigrò in America a 31 anni, (aveva già avuto un figlio, che poi diventerà il suo traduttore ufficiale, da una compagna occasionale), seguendo Israel, il fratello maggiore, anch’egli scrittore di rango. I primi tempi si stabilì a Sea Gate, nella propaggine estrema di Brooklin, in mezzo ai profughi con barbe, abiti neri e cappelloni, sfuggiti ai pogrom, coi quali ebbe rapporti contrastati, pur non potendo staccarsi da loro. In seguito abitò sempre fra Manhattan (Upper West Side) e Miami (Surfside) dove morì nel 1991, nella ricca casa di riposo di Douglas Garden.

Ombre sullo Hudson, strutturalmente sgangherato come un feuilleton e pure con la densità speculativa del breviario interiore, è uno dei capolavori del secondo Novecento, per quanto se ne siano resi conto solo pochi fervidi appassionati distributi nei dipartimenti di letteratura comparata delle università del pianeta. Herz Grein di Isaac Singer incarna la risposta vitale a Leopold Bloom di James Joyce: come se il disperato sì alla vita di Molly si fosse trasferito nell’anima infiammata di questo brooker esiliato in riva all’oceano: «New York raccontava una storia di fulgore, scritta in caratteri luminosi, i margini miniati da fiumi, laghi, navi. Da qualche parte in quel caos fiammeggiante brillava anche la fiammella che lui stesso aveva acceso e poi abbandonato». Il titolo del romanzo illustra come meglio non si potrebbe l’oscurità della Shoah che persiste dentro le tragicomiche vicende del protagonista in stile vaudeville, il quale passa da una donna all’altra senza cavare un ragno dal buco: «Questo mondo è come chi beva acqua salata. Più beve, più gli vien sete».

Le pagine finali, indirizzate a Morris Gombinar, altro reduce dei lager incontrato per caso in Florida, spiegano perché: «Quella che chiamiamo cultura europea o americana non è altro che la cultura dei bassifondi. È costruita sul principio di gratificazione immediata… La Torah è l’unico insegnamento efficace che abbiamo su come imbrigliare la belva umana… Lo stesso Dio che ha creato la tigre ha creato anche la corda e instillato nella tigre umana il desiderio di legarsi… Nella mia situazione devo difendermi. Basta che si sciolga un nodo e la belva torna libera…». E per giustificare il suo isolamento a Gerusalemme dopo anni di sregolatezze americane: «Non può esserci alcun legame tra un animale legato e uno che vaga libero».