Ognuno ha i generali che si merita. Marco Travaglio ha Fabio Mini. Chi scrive, invece, si tiene stretto Carlo Jean. Il primo ha definito “una follia della Nato l’avanzata di Kiev nel territorio russo di Kursk” (Il Fatto Quotidiano, 18 agosto). Il secondo l’ha definita “una beffa per l’esercito e l’intelligence del Cremlino” (Formiche.net, 4 settembre).

Non sono solo due punti di vista diversi sull’efficacia di una operazione militare. Sono anche due letture diverse della guerra e della sua possibile conclusione. Per Mini la partita è già virtualmente chiusa, data la straripante superiorità bellica di Mosca. Per Jean i giochi sono invece ancora aperti, nonostante l’arsenale nucleare di cui dispone.

In effetti, c’è un motivo se la minaccia ricorrente di usarlo è quasi scomparsa nelle dichiarazioni di Putin e del suo zerbino Dmitrij Medvedev. Perché è diventata un’arma propagandistica spuntata. La realtà è che la dissuasione strategica basata sulla Mad (acronimo di “mutual assured destruction”, distruzione mutua assicurata) continua a funzionare anche dopo la Guerra fredda. In secondo luogo, le aspirazioni neoimperiali dello zar devono fare i conti con una economia tecnologicamente arretrata (eccetto il settore aerospaziale), troppo piccola e troppo dipendente dalle risorse naturali.

In terzo luogo, malgrado i progressi dell’offensiva nel Donbass, la Russia ha mancato tutti gli obiettivi iniziali dell’invasione: insediare a Kyiv un governo fantoccio; “denazificare l’Ucraina; smilitarizzare il paese e impedire ogni garanzia occidentale sulla sua sicurezza. Ormai le sue maggiori probabilità di successo sono legate non tanto a una vittoria sul campo, quanto all’inerzia dei governi europei e alla fine del sostegno Usa se Trump dovesse prevalere alle presidenziali di novembre. Il futuro è nel grembo di Giove, dicevano gli antichi. Speriamo che partorisca Kamala Harris.