Che l’architettura, o meglio l’organizzazione dello spazio, svolga un ruolo importante nel rendere l’esecuzione penale conforme alla Costituzione italiana credo sia ormai un concetto acquisito nella riflessione di quanti tuttora si interrogano attorno all’effettività di questo obiettivo. Non lo è per quanti pensano, senza dirlo, che in fondo quel precetto fissato dall’articolo 27 della nostra Carta sia una mera enunciazione, al più una bella speranza perché il vero tema sia tenere ben separate le persone dalla collettività, pur sanando quelle inaccettabili condizioni che l’attuale panorama carcerario ci presenta nella gran parte delle nostre città. Ancor meno sembra essere concetto acquisito da parte dell’amministrazione, che negli ultimi decenni ha continuato a restringere il tema alla semplice collocazione delle persone in moduli geometrici informi che poco hanno a che fare con l’architettura.

Lo spazio in carcere

Al più la offendono. Lo spazio restituisce nella sua organizzazione e articolazione – lo si è ripetuto più volte – l’idea di ciò che al suo interno si realizza, la conferma e la ripropone. In modo particolare, lo spazio destinato a realizzare una funzione pubblica, affidata dalla collettività, è la concretizzazione della concezione socialmente diffusa di quella funzione e però al contempo la riafferma, rischiando di perpetuarla. Per questo da un lato una diversa organizzazione spaziale può fare evolvere il pensiero collettivo e, quindi, aiutare la società ad aprirsi a un pensiero diverso e più aperto circa quella funzione; dall’altro la proposizione di uno spazio informe e anonimo consolida la posizione di chi crede che non ci sia nulla d’innovativo da pensare per ciò che là dentro deve avvenire.

Del resto nessuno – tranne pochi – si è meravigliato nel veder sorgere dagli anni Novanta nel proprio territorio parallelepipedi grigi, sgradevolmente anonimi e il tema base per chi amministra la detenzione e la sua intrinseca pena ha così continuato a essere il numero di posti, la garanzia di accesso all’area, un ambiente anch’esso anonimo per i colloqui con i familiari e quelle altre poche cose che anche il più restrittivo regime non può negare.

Il messaggio implicito

Gli Istituti del panorama edilizio carcerario del nostro Paese trasmettono questa sensazione di indifferenza. Sono più comunicativi quelli antichi, anche se spesso angusti e difficilmente riconducibili a una concezione di esecuzione penale che non sia una retribuzione di sofferenza per il male provocato; così pensati e così in grado di trasmettere questo implicito messaggio, anche se spesso ospitano anch’essi persone che ben poco male hanno provocato e molto ne hanno subìto nelle difficoltà della vita passata. Quelli teoricamente più recenti – anch’essi comunque ormai trentenni o quarantenni – non trasmettono neppure questo; si limitano a inviare il messaggio che là non c’è nulla da congetturare, basta rassicurare la collettività con un bel muro e soltanto contenere, perché il tempo scorre all’interno uniforme come uniformi e muti sono gli ambienti. E anche le persone sembrano divenire progressivamente mute nel loro essere ridotte a casi, fascicoli, più o meno complessi.

Ragionare sugli spazi della detenzione vuol dire allora interrogarsi sul necessario recupero di effettività di quei due aspetti dell’articolo 27 che, rispettivamente, indicano che in carcere le condizioni non possano essere contrarie al senso di umanità, così considerando la persona nella sua pienezza, e che, di più, il tempo di vita che in esso si spende non sia fine a sé stesso, ma proiettato in avanti verso il dopo, oltre quel muro. Questi due aspetti direttamente discendono da tutto l’impianto costituzionale, a cominciare dai princìpi di uguaglianza, di riconoscimento della dignità della persona e di impegno a rimuovere ogni disparità; princìpi che non cessano in validità e pregnanza oltrepassando il muro materiale e simbolico della punizione legale. Perché questa può determinare riduzioni, diverse declinazioni e limiti nell’esercizio dei diritti, mai il loro annullamento – tranne, ovviamente, il diritto alla libertà del proprio muoversi e della definizione del proprio tempo. Anche sul primo aspetto – la pena non può essere inumana – occorre tornare a riflettere, nonostante si sperava in anni non troppo lontani che non ce ne fosse più bisogno e l’attenzione era volta prioritariamente alla finalità tendenziale dell’esecuzione penale. Tornare a riflettere perché in troppi casi gli spazi attuali non sono adatti neppure al mero contenere, né a garantire l’accesso sufficiente di aria nei luoghi dove si è chiusi per molte ore o la riservatezza delle funzioni naturali da risolvere in un contesto affollato privo di intimità.

L’influenza dell’architettura

Il tema sembra essere solo la collocazione numerica centrata sull’attenzione a non andare al di sotto di quei parametri minimi che farebbero scattare la “strong presumption” di violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, così come fissati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ma la vita in un luogo che diventa il tuo luogo è qualcosa di più di una allocazione (così la chiama l’amministrazione).

Il secondo aspetto, quello di cui molto si discute in convegni e molto poco si applica nella pratica, cioè la finalità di reinserimento sociale – che ben due disegni di legge a firma di esponenti dell’attuale partito al governo vorrebbero circoscrivere, ridurre nell’estensione di prospettiva – richiede uno sguardo “altro”, del tutto diverso rivolto allo spazio. Non più solo quello del rientrare nei limiti minimi fissati, bensì quello dell’articolazione degli ambienti, per le loro funzioni diversificate sulla base alle attività che in essi si devono svolgere. Richiedono pluralità e non omogeneità; richiedono la possibilità di favorire interazioni produttive di consapevolezza, di costruzione di qualcosa, di recupero di un ruolo anche nel rapporto con l’esterno. In sintesi, richiedono una visione della detenzione in cui la cella non è più “il” luogo della giornata perché nel decorso della giornata stessa c’è un “altrove” dove dirigersi, per fare e non per attendere. Qui l’architettura torna a essere attrice importante e la sua capacità di relazionare spazi articolati torna a essere l’impianto da prevedere affinché ciò che la Costituzione prescrive possa realizzarsi. Le persone recupererebbero così soggettività e questo sembra essere oggi per la direzione che la politica dà all’amministrazione un obiettivo distante: per taluni impossibile, eccessivo per altri, da evitare per altri ancora.

Lo spazio pensato porta pensiero

Eppure è questa la dimensione da recuperare: non solo perché la tradizione di civiltà chiede al nostro Paese di agire sempre verso il maggior recupero possibile di ogni persona, non assecondando l’impulso quasi vendicativo che emerge in molti commenti, ma che in fondo forse non rappresenta il sentire profondo, ma anche perché una prospettiva di ritorno positivo nella società esterna, tale da ridurre il rischio di recidiva, ha minori costi sociali e garantisce maggiore sicurezza. Non solo, ma anche perché lo si deve a chi in questi luoghi, molto spesso non dignitosi e negli altri casi quasi sempre amorfi, spende la propria vita lavorativa. Lo spazio pensato, progettato e non solo anonimamente costruito, porta sempre pensiero e pensarlo positivamente può aiutare a far pensare anche chi crede che in fondo ci sia ben poco da riflettere e che basti costruire qualche altro insieme di posti-letto.

Mauro Palma

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