Lavoro
Il paradosso del salario minimo tanto caro al PD

In occasione del Primo Maggio, il Presidente Sergio Mattarella ha voluto affrontare un problema al centro del dibattito politico, citando un recente documento dell’Ocse nel quale si afferma che l’Italia si distingue per una dinamica salariale negativa nel lungo periodo, con salari reali inferiori a quelli del 2008. Il richiamo del Quirinale ha mobilitato le opposizioni politiche e sindacali. I capigruppo del Pd hanno riproposto la questione del salario minimo. Il Capo dello Stato non si era riferito ad alcunché di specifico, ma la sinistra è legittimata a sostenere le sue proposte sul salario minimo. Rimane però una domanda: sarebbe in grado di affrontare il gap retributivo rimproverato al nostro Paese, pur in un contesto in cui il 97% dei lavoratori è “coperto” da un contratto stipulato da Cgil, Cisl e Uil?
Secondo le stime dell’INAPP, i lavoratori beneficiari dell’introduzione di un salario minimo legale a 9 euro orari sarebbero circa 2,6 milioni. Di questi, circa 1,9 milioni di lavoratori a tempo pieno, per un costo di 5,2 miliardi, e circa 680mila lavoratori a tempo parziale, per un costo di 1,5 miliardi. Il costo totale per le imprese sarebbe di 6,7 miliardi di euro. Altre stime sono più prudenti. Quanto all’importo dello smig, la direttiva europea forniva delle indicazioni “virtuose”: il 60% del salario mediano o il 50% di quello medio. In ambedue i casi, da noi dovrebbe essere di poco superiore ai 7 euro all’ora, non i 9 euro proposti “a orecchio” nel ddl delle opposizioni.
Il salario minimo legale aumenterebbe sicuramente il monte retributivo, ma non esiste alcuna evidenza che potrebbe determinare un incremento salariale per tutti i lavoratori, tanto più che l’Italia perde nel confronto con altri Paesi non sul terreno delle retribuzioni minime o più basse, ma per l’importo delle più elevate. Inoltre, i 9 euro rappresenterebbero l’87% del salario mediano nazionale (pari a 12,8 euro l’ora). Così gli spazi reali di contrattazione verrebbero meno a livello nazionale, mentre potrebbero essere recuperati solo attraverso la contrattazione decentrata e di prossimità in relazione con gli incrementi della produttività.
La retribuzione – nel caso di smig a carattere universale – sarebbe contraddistinta da due componenti: una fissata per legge, l’altra contrattata, ognuna delle quali risponderebbe a due differenti autorità salariali. La prima alla mano pubblica chiamata ad adeguarne periodicamente il livello; la seconda alla contrattazione collettiva a cui resterebbero a disposizione margini economici molto limitati, soprattutto nel Mezzogiorno. Sarebbe un ulteriore caso di quella “nazionalizzazione” della retribuzione, che è la nuova frontiera della politica sociale in Italia.
Bisognerebbe avere il coraggio di andare ai nodi veri. Innanzitutto l’architettura della contrattazione collettiva incentrata in prevalenza sul contratto nazionale di categoria, che porta con sé inevitabili conseguenze: nel definire le retribuzioni occorre tener conto delle disponibilità delle imprese marginali; la durata media della vacanza contrattuale in Italia – ovvero il periodo tra la scadenza di un contratto collettivo nazionale e il suo rinnovo – è di circa 30 mesi, a cui vanno aggiunti gli anni di validità del contratto; ne deriva che i salari restano al medesimo livello per un lungo arco di tempo, con il rischio di essere destabilizzati da eventi imprevisti come una fiammata dell’inflazione rispetto al tasso preso a riferimento al momento del negoziato.
La struttura produttiva italiana, poi, non è adeguata a reggere la sfida della competitività se non attraverso un contenimento delle retribuzioni. Dei 4,665 milioni di imprese attive in Italia, la quasi totalità (94,91%) ha un numero di dipendenti compreso tra 0 e 9, opera nei diversi settori economici e impiega 7,704 milioni di lavoratori. Seguono le piccole imprese (tra 10 e 49 dipendenti), che costituiscono il 4,44% del totale, mentre le medie imprese (tra 50 e 249 dipendenti) sono lo 0,56% del totale. La quota residuale è costituita dalle grandi imprese (almeno 250 dipendenti), che in Italia nel 2022 erano poco più di 4.400, lo 0,09% del numero totale delle imprese italiane, ed impiegavano più di 4,2 milioni di lavoratori (pari al 23,29% del totale).
Anche se ci vantiamo delle nostre “multinazionali tascabili”, la struttura produttiva resta debole per quanto riguarda gli investimenti e di conseguenza la produttività. Dal canto suo, la struttura della contrattazione finisce per “conservare” quel modello. Se non si sciolgono i nodi reali, lamentarsi dei bassi salari è come abbaiare alla luna.
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