Quando aveva convocato le elezioni anticipate, era stato sommerso dalle critiche. Raphael Glucksmann si era detto disgustato. La Borsa aveva emesso  scricchiolii. I sondaggi prevedevano catastrofe. Ieri però Macron è tornato in campo. Ha vinto anche lui, non solo la sinistra. Ma ha vinto forzando la classica retorica repubblicana, quella conventio ad excludendum che aveva sempre protetto il sistema politico francese dalla destra lepenista. Il che si traduce nell’irruzione di un parlamentarismo à l’italienne, che complica le usuali geometrie e l’usuale stabilità del regime presidenziale. E, più ancora, minaccia uno scollamento della rappresentanza democratica, il quale potrebbe avere effetti ravvicinati sul piano delle tensioni sociali ed effetti a medio termine sulle elezioni presidenziali del 2027. Perchè, certo, il barrage ha funzionato, ma a quale prezzo? Come hanno vissuto i francesi le convulsioni degli ultimi giorni? Quanto si è rafforzato o invece sfilacciato il legame tra il popolo sovrano e le sue istituzioni? Tra il paese reale e il paese legale?

Elettori sconcertati

Se proviamo a metterci dalla parte degli elettori, è evidente che molti, moltissimi sono rimasti sconcertati. Che hanno assistito pieni di dubbi alla nascita repentina di un Fronte Popolare in cui si mischiavano indiscriminatamente massimalisti e riformisti. Che hanno poi votato turandosi il naso, facendo cioè buon viso di fronte a una scheda che, contro il Rassemblement, proponeva un candidato unico. In base a triangolazioni non di rado insostenibili fra estrema sinistra e centristi. E il popolo di destra? Si è sentito defraudato dell’attesa vittoria, scacciato ancora una volta dal recinto della République, chiuso in un ghetto che, pur addomesticato nel corso degli anni, non per questo ha guadagnato legittimità politica. Un buon trenta per cento di elettori cui ha dato voce Jordan Bardella, definendo come “alleanze del disonore” gli accordi di desistenza. Per la République, insomma, forse le cose non sono così benauguranti come racconta l’alta affluenza alle urne. Ma per ragioni opposte, anche i vincitori sembrano esercitare pressioni improprie sulla fisiologia democratica. Ad urne aperte, è montato l’entusiasmo della sinistra dura e pura, Mélenchon è andato davanti alle tv pretendendo la poltrona dell’Hôtel Matignon, ha chiesto alla folla di place de Stalingrad di tenere alta la mobilitazione popolare. “Il governo del Fronte non avrà alcuna autorità, se non sarete voi a dargliela”, ha gridato ai suoi. Parole forti. Entusiasmi eccessivi e forse malriposti.

Passare alla politica

Ora che dalle emozioni del 7 luglio è giocoforza passare alla politica, infatti, quale sarà lo spirito pubblico del Paese? Con quale legittimazione popolare prenderà forma – per dire dell’ipotesi più gettonata – una maggioranza di governo fondata sull’alleanza tra le sigle del centrismo e le componenti moderate della sinistra? Sarà, anche questo, è facile prevederlo, un cammino controverso.

Naturalmente, i milioni di lepenisti riterranno che i loro voti sono stati messi a tacere dalle trame dell’establishment e affideranno ai propri rappresentanti parlamentari una rivincita che, dai banchi dell’opposizione, potrebbe rivelarsi agevole. Meloni docet. Ma anche il popolo di Mélenchon, di fronte a un governo di centrosinistra, riterrebbe che la vittoria elettorale gli è stata scippata dall’odiato Macron. In molti si sentirebbero traditi. Un arcipelago dello scontento, periferie multietniche e intello radicali, populisti e sovranisti, fascisti e comunisti, islamofobi e islamisti. Un fiume carsico di tensioni sociali e culturali, demografiche e religiose, che graverà sulle spalle non più tetragone della Quinta Repubblica. Uno scollamento tra politica e società che approderà, prima o poi, a qualche lambiccata soluzione parlamentare, ma che non per questo andrebbe considerato risolto.

Era tempo, del resto, che Macron vedeva la propria popolarità scendere sempre più in basso. Ed è facile prevedere che lo “scampato pericolo” del lepenismo non migliorerà le cose. Dopotutto non si vede perché le politiche di rigore finanziario dell’Eliseo, le sue riforme del welfare, la sua geopolitica europeista e interventista debbano essere più appetibili oggi, nel quadro di alleanze parlamentari che si annunciano obbligate e probabilmente disomogenee. Sarebbe necessario cercare nuove strade. Prendere il toro per le corna. E il toro altro non è se non il Paese della marginalità culturale e dell’insicurezza economica. Pensare che sia un Paese intrattabile, non cercare di gestirne le ragioni, credere di poterlo ignorare, sarebbe un grave errore. “Oggi torno a sentirmi veramente in Francia”, diceva commossa una ragazza, domenica sera, festeggiando il trionfo del Fronte Popolare. Ecco, sarebbe questo il grave errore.