Esteri
Il soft power ci salverà (meglio se armato): la lezione di Joseph Nye jr., l’impegno di Rutelli
Il Soft Power Club riunirà a Napoli esperti, manager e istituzioni italiane ed europee. Multilateralismo da rifondare: cultura, turismo, business portano pace e sviluppo

È scomparso il 6 maggio all’età di 88 anni Joseph Nye jr., il padre del cosiddetto soft power, il potere gentile della persuasione che si contrappone ma non esclude il potere militare e della coercizione. È una scomparsa dolorosa e simbolica: da Professore emerito di Harvard, Nye ha affiancato la sua voce allo scontro senza precedenti tra politica e accademia in America, difendendo fino all’ultimo l’autonomia della sua e delle altre Università.
Ma soprattutto non ha mai rinnegato, da studioso e intellettuale, il ruolo che, nonostante la fase storica che stiamo vivendo, il soft power può continuare a svolgere. Lo ha scritto con lucidità e passione in un lungo articolo pubblicato poco più di un mese fa dal Financial Times: il soft power, inteso come capacità di convincere senza usare la forza, rimane un elemento essenziale della vita internazionale. Esso non esclude e anzi completa la capacità degli Stati di usare lo strumento militare, soprattutto per difendersi di fronte a minacce tradizionali e non convenzionali crescenti. Quel potere si è tradotto nel tempo nella capacità degli Stati di definire regole del gioco comuni, di fissare standard internazionali minimi di dignità, soprattutto di favorire la crescita del multilateralismo, oggi indubbiamente in crisi.
Nye conia il termine soft power e ne codifica una vera e propria dottrina alla metà degli anni Novanta. Era un mondo totalmente diverso, inebriato dalla fine della Guerra Fredda, esaltato dall’apertura dei mercati e dei commerci, immerso nella globalizzazione nascente. Erano gli anni del turbocapitalismo e dell’illusione della fine della storia. Oggi, pur in un contesto in cui la guerra torna in Europa, il Medio Oriente torna ad infiammarsi, lo spettro di un conflitto nucleare torna ad affacciarsi anche tra India e Pakistan, e gli Stati Uniti demoliscono l’ordine liberale mondiale, esiste ancora uno spazio significativo per il soft power. Nye lo definisce un “contratto sociale”, echeggiando i grandi filosofi del pensiero politico del XVIII e XIX secolo, un set minimo di regole che nemmeno la furia di Donald Trump o il ritorno delle politiche di potenza di Cina e Russia può annullare completamente.
Lo spazio è dunque ridotto ma continua ad esistere. Per questo è necessario ribadire alcuni dei punti che Joe Nye ha reso forti con la sua analisi, punti che possono essere ancora di ispirazione. Il primo è, per l’appunto, che potere militare e potere della persuasione non sono in contrapposizione. È necessario per i Paesi garantire e garantirsi una difesa adeguata ma esercitare un adeguato soft power consente un esercizio del potere più duraturo ed efficace nel tempo. Il secondo è che il multilateralismo non va annullato ma rifondato su basi pragmatiche, non ideologiche e decisamente più efficaci.
Infine, il soft power rimane un acceleratore economico formidabile. Basti pensare a come aree del mondo prima remote, nel Golfo Persico come in Africa, siano diventate centrali nell’immaginario collettivo grazie al potere della cultura, delle industrie creative, delle grandi manifestazioni. Da questi elementi si può e si deve ripartire. Lo ribadirà il 26 e 27 maggio a Napoli il Soft Power Club, fondato da Francesco Rutelli sei anni fa e che ha avuto Joe Nye come invitato permanente e ovviamente come ispiratore di un’iniziativa che porta allo stesso tavolo da anni le voci di esperti, manager ed istituzioni per ribadire che il potere gentile rimane uno dei più importanti elementi di competitività e successo. Tra gli ospiti, Fatih Birol, il primo ministro francese Bayrou, il ministro della Cultura Alessandro Giuli e quello delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso.
© Riproduzione riservata