Il cohousing è una modalità di abitare ancora poco diffusa in Italia a causa di un vuoto normativo e, da parte dello stato, di un supporto concreto per la costruzione di modelli di affitto condiviso.
A partire dagli anni Duemila, questa pratica ha iniziato a diffondersi, ma solo tramite l’acquisto degli immobili da parte dei futuri inquilini, in forma spontanea e privata.
In queste realtà le singole unità abitative condividono spazi comuni più ampi di quelli presenti nei condomini tradizionali come salotti, librerie, cucine, lavanderie, orti e giochi per bambini.

Chiara Casotti lavora come progettista sociale per lo sviluppo comunitario e la pari dignità sociale dei cittadini. Tramite le associazioni Casematte e CoAbitare si dedica alla promozione dell’abitare collaborativo: persone aperte all’ascolto dell’altro creano comunità intenzionali eterogenee dove l’aiuto e il sostegno arrivano dal vicino di casa e dove coabitare significa condividere.
Casotti sarà ospite del Festival Internazionale a Ferrara sabato 2 ottobre, nel suo intervento, dal titolo “Dove ci prenderemo cura di noi”, riporterà l’esperienza vissuta in prima persona del cohousing, a prova del fatto che una convivenza intenzionale possa davvero migliorare le nostre prospettive future di vita.
Ne abbiamo parlato insieme per scoprire di più questa modalità abitativa.

In cosa consiste il lavoro di progettista sociale?

Il compito del progettista sociale è quello di promuovere la pari dignità sociale tra i cittadini oppure la tutela dei loro diritti; tale compito si svolge attraverso svariate attività, dall’ideazione del progetto alla sua gestione. Finalmente la figura del progettista sociale è stata riconosciuta da una legge sul Terzo Settore, del 2019: è una figura trasversale all’interno di questo ambito, che progetta guardando al benessere della collettività o dell’ambiente.

Per quali motivi ha iniziato a pensare al cohousing come possibile metodo volto a migliorare il futuro della collettività?

Nella mia vita ho traslocato spesso e il ricordo che conservo dei luoghi che ho abitato è strettamente legato ai miei vicini di casa. Avere delle buone relazioni di prossimità, potersi aiutare reciprocamente anche solo per piccoli favori, aumenta la qualità della vita. A partire da questa riflessione ho iniziato a studiare modelli abitativi collaborativi, a visitarli e infine a promuoverli, partecipando attivamente a due associazioni, Casematte e CoAbitare: esse pongono al centro del benessere della persona l’abitare in un contesto relazionale positivo. Questo è importante sia nell’ambito dell’Edilizia Residenziale Pubblica sia privata. In un cohousing il condividere ampi spazi comuni non solo facilita l’interazione degli abitanti ma costringe questi ultimi a occuparsi non solo del proprio spazio privato ma anche dei beni condivisi con gli altri: un cambiamento di prospettiva rivoluzionario.

A che punto siamo in Italia? Quanto è diffusa questa pratica abitativa?

Il cohousing ha iniziato a diffondersi in Italia all’inizio degli anni Duemila ma è ancora un fenomeno di nicchia. L’emergenza sanitaria, tuttavia, ha notevolmente contribuito alla sua crescita. La pandemia infatti ha cambiato il nostro modo di vivere le relazioni, travolgendo ogni schema precedente e aumentando il senso di solitudine e di isolamento. La scarsa diffusione di cohousing in Italia è dovuta a due fattori: da un lato l’assenza di norme specifiche (a differenza dei paesi nordici e della Francia); dall’altro la mancanza di aiuti statali per favorire modelli di coabitazione in affitto. Il cohousing in Italia è nato finora quindi quasi esclusivamente da iniziative private in acquisto, secondo due modelli. Da una parte il modello associazionistico, che vede un gruppo autorganizzato che arriva ad abitare in un cohousing dopo un lungo processo che può durare anni; dall’altra parte il modello “accompagnato” da una società che offre un immobile e struttura maggiormente il processo. Dopo tanti anni di esperienza nell’ambito associazionistico mi sono convinta che il modello societario sia utilmente complementare, esso infatti va incontro al bisogno di avere certezze sui costi complessivi (comprensivi degli spazi comuni) e certezze sulla durata del processo, inoltre offre una strutturazione più definita del processo coabitativo e richiede dunque meno tempo ed energia, infine può proporre un immobile più efficiente dal punto di vista energetico. Per tutte queste ragioni ho iniziato a collaborare con Homers, una società benefit innovativa di Torino, che offre il supporto necessario per progettare insieme il proprio cohousing, con rigorosa attenzione a sostenibilità e economicità.

Sabato 2 ottobre interverrà al festival Internazionale di Ferrara, “Dove ci prenderemo cura di noi” sarà il titolo dell’incontro. Attualmente abita in un cohousing, come descriverebbe la sua esperienza e come vi prendete cura di voi?

Si tratta di una sfida complessa ma appagante. Non è sicuramente un’impresa da poco aggregare un gruppo di sconosciuti e acquistare insieme un immobile, decidere quali spazi sono privati e quali sono comuni, progettarne la ristrutturazione, deliberare principi e regole. Ciò richiede capacità di ascolto e flessibilità. Ma il risultato è potente perché ci si aiuta davvero: ci si occupa degli spazi comuni, si fa la spesa per gli altri, si accudiscono i gatti di chi si assenta e via dicendo. Insieme poi si fanno tante cose, dai pranzi ai lavori nell’orto: ci divertiamo!

La popolazione invecchia e le famiglie cambiano, c’è un qualche ritorno al passato in questa pratica abitativa?

Lo slogan dell’associazione CoAbitare di Torino è “un nuovo modo di vivere vecchio come il mondo” proprio perché questi modelli si ispirano alle comunità rurali tradizionali ma il principio innovativo è che alla base c’è una scelta, una volontà di costituirsi come comunità solidale, una comunità che può accogliere gli anziani o le persone con disabilità, come dimostrano i cohousing anche qui da noi. Per questo è importante approvare la legge sul riconoscimento giuridico delle comunità intenzionali, depositata in commissione Affari Costituzionali alla Camera nell’ottobre del 2020; essa renderebbe queste comunità un soggetto giuridico a tutti gli effetti, semplificandone la fattibilità.

Se pensiamo agli anziani, alla loro possibilità di mantenere l’autonomia il più a lungo possibile, penso a OWCH – New Ground Cohousing a Londra, un esempio di cohousing intergenerazionale della seconda metà della vita che è stato pensato nell’ottica dell’invecchiamento e della cura. D’altronde lo psicologo evolutivo Robin Dunbar, ci dice che l’amicizia e le relazioni interpersonali sono uno dei fattori che più incide sulla salute e sulla durata della vita.

Carolina Casali

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