Per la costruzione di una scienza più paritaria e plurale occorre portare avanti un’educazione scientifica a partire dalle giovani generazioni. È su questi temi che da tempo lavora l’astrofisica Edwige Pezzulli, tra le fondatrici di WeSTEAM Italia, una rete di scienziate impegnate nella promozione di una scienza inclusiva. È sulla base di queste idee che Pezzulli, insieme a  Matteo Alparone, ha costruito il programma di Là Fuori: il festival della scienza e dell’arte che si terrà a Roma, presso Villa Lazzaroni, dal 10 al 12 giugno. Tra gli ospiti l’astrofisico Amedeo Balbi, l’attrice Federica Rosellini, lo studioso di buchi neri Gabriele Ghisellini, l’attore e Maestro Roberto Herlitzka, il jazzista e chimico Umberto Petrin. Abbiamo parlato con Edvige Pezzulli per capire quali sono le sfide comunicative per un settore scientifico inclusivo e accessibile.

Un libro, programmi televisivi, laboratori e conferenze, premi, progetti di divulgazione e molto altro ancora. Il suo non è evidentemente “soltanto” il profilo di una scienziata. Com’è nato il suo interesse per la comunicazione scientifica? Il suo posizionamento di genere nella società vi ha avuto un ruolo? E il festival “Là Fuori”, che si rivolge ai più giovani, come si inserisce nel quadro del suo impegno in questa direzione?
Mi sono avvicinata alla comunicazione scientifica durante la tesi magistrale all’Università, quando ho scoperto per la prima volta cosa fosse la ricerca vera e propria. L’impatto è stato Forte, perchè non avevo più solo a che fare con il sapere scientifico, ma anche con la pratica della scienza: le modalità con cui si collabora, il pensiero critico e analitico alla base delle discussioni, creare domande e cercare risposte che non siano già scritte sui libri. Mi pareva una grandissima ricchezza, capace di insegnare a leggere e modellare la realtà, a interfacciarsi con un mondo complesso, ad approcciarsi a problemi di ogni sorta. E questa ricchezza tendeva a rimanere segregata solo tra chi la produceva: le comunità scientifiche. Ma niente è veramente nostro finchè non lo condividiamo, scrisse C.S. Lewis, e credo si tratti di una verità molto più profonda di quello che sembrerebbe a prima vista. Una volta iniziate le attività di divuglazione, mi sono accorta che l’immagine che si ha di chi fa la scienza è abbastanza stereotipata: un uomo, bianco, solitario, geniale. In poche parole Albert Einstein. E questa visione non soltanto è lontana dalla realtà – la scienza è un soggetto collettivo, costituito da individui senza il superpotere della superintelligenza – ma rischia di rendere la scienza più lontana di quanto non lo sia già, impedendo ai più piccoli, e soprattutto alle più piccole, di sentirsi rappresentate e collocare un domani all’interno della comunità scientifica. Buona parte dei progetti sulla questione di genere nella scienza di cui mi occupo si focalizzano proprio sugli stereotipi e i pregiudizi nella scienza, ed è anche parte integrante del progetto Là Fuori: i laboratori scientifico-artistici che abbiamo realizzato nelle scuole orbitano attorno al binomio arte e scienza, e ogni incontro ha promosso attivamente anche una destrutturazione degli stereotipi di genere.

Quali trova che siano le principali sfide comunicative che vuole affrontare? E come si rivolge ai bambini, trova che accolgano molto diversamente dagli adulti ciò che viene loro spiegato e raccontato?
I bambini e le bambine sono un terreno molto fertile per la scienza, forse perché vivono loro stessi in una fase di costruzione del mondo: osservano, falsificano idee e modelli, sono pronti a mettere in dubbio le proprie convizioni a favore di visioni più verosimili. In poche parole, non hanno schemi radicati dall’abitudine e questo li facilita molto in una riflessione più libera. I più piccoli mi sembrano poi anche meno legati alle categorizzazioni che spesso portano avanti gli adulti: sapere scientifico da una parte, sapere umanistico dall’altra, e in un terzo luogo, l’arte, in un quarto i sapere più tecnici… Tra una conoscenza e un’altra compaiono spesso meno paletti, ed è più facile quindi spostarsi tra terreni differenti, sperimentando modalità e fusioni che mettano in relazione la scienza con le altre discipline.

 

Quando si decide di affrontare la questione della discriminazione nelle carriere STEM, molto spesso si cerca di incoraggiare un maggiore coinvolgimento personale di bambine e ragazze in percorsi di studi tecnico-scientifici. Ma sappiamo bene come, per quanto in minor numero rispetto agli uomini, le donne non manchino in questi corsi di laurea: il problema viene dopo ed è molto legato a come vengono accolte nel mondo del lavoro. Ha senso rivolgersi a loro per convincerle a perseguire questi obiettivi? Perché secondo lei si parla così poco, invece, di come cambiare la percezione che hanno delle scienziate gli uomini e le altre donne, coloro che dovranno cioè riconoscerne il valore e la credibilità?
Per molto tempo si e creduto che l’unica soluzione per aumentare il numero delle scienziate fossero azioni mirate ad “aggiustare le donne”, progetti di avvicinamento alle facoltà tecnico-scientifiche rivolti alle bambine e alle ragazze. Quando ci si è poi accorti che, nonostante il numero di studentesse aumentasse, le disuguaglianze di genere nelle carriere scientifiche continuavano a persistere, si è capito che probabilmente più che una questione di numeri, si tratta di una questione culturale. Ed è proprio sulla cultura delle organizzazioni che dobbiamo intervenire, a partire dagli stereotipi e pregiudizi di genere che contaminano la visione della scienza che si ha dentro e fuori il mondo della ricerca. Spostare, se vogliamo, la responsabilità dalle donne alla cultura delle organizzazioni, rappresenta una rivoluzione prospettica che porta con sè però anche una grande questione: le comunità scientifiche, di qualsiasi genere siano, devono iniziare a dubitare della loro neutralità. Come suggerisce una nota informativa della Royal Society, l’accademia nazionale della scienza inglese: persone di scienza, ricordate che è improbabile scoprirvi più giusti e con meno pregiudizi della media delle persone. I pregiudizi inconsci, semplicemente, sono difficili da riconoscere in noi stessi.

 

La scienza è un fatto umano e come ogni fatto umano è un prodotto complesso di relazioni, punti di vista, risorse e ragioni personali, aspettative e ideologie. Tuttavia, questa consapevolezza, che già fatica a emergere quando si parla di pregiudizi e discriminazioni nel mondo della scienza, ha difficoltà ad attecchire anche rispetto alla concezione stessa di pensiero scientifico – spesso infatti si confonde l’oggettività con l’imparzialità e l’assolutezza, l’autorevolezza con l’autorità. Cambiare il modo in cui ci rappresentiamo e ci rapportiamo con le persone che fanno la scienza, può aiutare anche a sciogliere queste resistenze? Le due questioni, nella sua visione, sono legate?
Se le discriminazioni che subiscono le donne nella scienza affondano le loro radici in questioni culturali, allora cambiare la cultura della scienza è il primo passo per risolvere il problema. Pensiamo spesso che la scienza sia portata avanti da individui nudi, senza vestiti nè bagagli di valori – come se indossare un camice, o prendere un gesso e scrivere equazioni alla lavagna, annienti l’individuo che c’è dietro l’azione. Siamo umani, e umani restiamo anche quando osserviamo, modellizziamo, produciamo teorie, quando dobbiamo giudicare il valore scientifico di una persona o di una ricerca. La scienza è fatta da persone e, come qualsiasi altro prodotto umano, dipende dal contesto sociale, culturale, storico e geografico in cui si trova, non ci sono valori imprescindibili né obiettivi essenziali. Siamo noi a determinare gli obiettivi della scienza, a decidere come utilizzare i suoi risultati e a definire il livello del dialogo che avrà con le altre discipline e con la società. Siamo noi anche a determinare chi nella scienza verrà considerato più autorevole, quale domande avrà senso porci, che filoni di ricerca finanziare. Riconoscere la nostra parzialità e non neutralità, insomma, è il punto di partenza per poter costruire comunità scientifiche inclusive e plurali.

 

In cosa si concretizzano il pregiudizio e la discriminazione di genere nel mondo della scienza? Trova che questo settore si differenzi da altri, rispetto a questo tema, e come crede che si possa fare per cambiare questo stato di cose?
La questione di genere nella scienza non è solo un tema che riguarda la giustizia sociale, e c’è un esempio che lo racconta molto bene: la storia degli studi sulla fecondazione. Alle elementari ci hanno insegnato che il processo di fecondazione potrebbe essere semplificato nel seguente modo: lo spermatozoo, unico elemento attivo, si fa strada grazie alla spinta della sua “coda” fino all’ovulo, semplice barriera. L’ovulo viene così fecondato. Negli anni ‘80, però, un gruppo di ricerca interessato a realizzare un contraccettivo che agisse sullo sperma, osservò che la spinta degli spermatozoi è molto inferiore a quella necessaria per penetrare l’ovulo. Si capì così che l’ovulo doveva giocare un ruolo attivo e fondamentale nella fecondazione, processo che veniva di colpo descritto come cooperativo. È possibile che gli stereotipi di genere abbiano influenzato le  osservazioni della comunità scientifica? Lo stereotipo di ciò che è femminile – passivo, inerme – e ciò che è maschile – attivo e potente – può aver determinato la descrizione e l’interpretazione degli esperimenti? Cosa si è scelto di osservare e cosa, invece, è stato ignorato? La lettura di alcune osservazioni può essere parziale perchè parziale è l’occhio di chi guarda. La parità di genere nella scienza, quindi, gioca un ruolo fondamentale non soltanto per creare comunità scientifiche più giuste, ma anche per garantirci un sapere scientifico più ricco: se gli occhi di chi guarda e fa scienza possono condizionare la struttura, i metodi e i contenuti della scienza stessa, avere quanti più sguardi possibile, e diversificati, ci aiuta allora a costruire un puzzle più complesso e completo nella descrizione della realtà che ci circonda.