L'intervista
Intervista a Fausto Pocar: “Con restrizioni a rischio la nostra libertà”
«Il rischio è che con il pretesto dell’emergenza, certe misure siano prese in un modo che appare definitivo. E questo è un pericolo da scongiurare. La crisi pandemica non può giustificare né trattamenti inumani e degradanti né il mancato rispetto del diritto alla vita. La sicurezza va tutelata ma non a scapito delle libertà fondamentali. E le misure emergenziali devono avere una limitazione temporale altrimenti si rischia una involuzione autoritaria». A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa a Il Riformista, è una delle massime autorità nel campo del Diritto internazionale: Fausto Pocar, professore emerito di Diritto internazionale all’Università degli Studi di Milano, già presidente del Tribunale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia. Attualmente è giudice ad hoc della Corte Internazionale di Giustizia e presidente onorario dell’Istituto internazionale di diritto umanitario.
Professor Pocar, quali problemi comporta per il Diritto internazionale e umanitario questa crisi pandemica?
È difficile fare una analisi completa perché questa situazione ha colto tutti impreparati, a cominciare dalla Cina che non ha compreso subito la dimensione del fenomeno e la sua gravità, e un discorso analogo si può fare per tutto il mondo che nonostante la Cina ha continuato spesso a sottovalutare il pericolo: pensiamo, solo per fare qualche nome, a Trump, a Johnson, al presidente del Brasile Bolsonaro. Quindi anche il Diritto internazionale si è trovato impreparato. Da un punto di vista giuridico si pongono, a mio avviso, problemi soprattutto di carattere generale che richiedono un cambio di prospettiva dell’intera comunità internazionale. Senza sparare bordate impietose contro l’architettura attuale della comunità internazionale, mi sembra evidente che tale architettura non consenta attualmente di affrontare in modo adeguato sfide globali che riguardano l’umanità intera.
Quali sono le sfide più cogenti e impegnative?
Ci sono sfide che dipendono dall’uomo e altre che non dipendono solo dall’uomo ma a cui l’uomo deve far fronte. Per esempio, la struttura internazionale negli ultimi anni ha cercato di affrontare il problema generale dello sviluppo economico senza preoccuparsi troppo della sostenibilità, mentre il vero problema è proprio la sostenibilità. Anche prendendo l’esempio del Coronavirus, varie volte negli ultimi quindici anni si è prospettato il rischio di una grave pandemia, almeno a cominciare dal 2002-2003 con la Sars, ma ben poco è stato fatto per coordinarsi se si fosse verificata una pandemia. È quello che sta succedendo in questi mesi lo dimostra. A mio avviso è necessario che si studino seriamente le cause della pandemia e si adottino gli strumenti di cooperazione adeguati per affrontare situazioni di questo genere. Qui, però, sorge il problema del collegamento della pandemia con gli altri problemi globali, a cominciare da quello climatico e dalla modificazione dell’equilibrio biologico nel mondo. Sono convinto che per disegnare il futuro post-Coronavirus vi sia bisogno di una nuova e diffusa consapevolezza ambientale e sociale che indirizzi le scelte dei governi e degli organismi internazionali. I tecnici e gli esperti nei vari campi possono e debbono dare il loro contributo, ma poi sta a chi ha responsabilità istituzionali e politiche l’onere di fare sintesi e indicare una strategia complessiva.
La crisi pandemica ripropone il tema cruciale del rapporto tra libertà e sicurezza.
Questo è un grosso problema dal punto di vista della democrazia e della problematica dei diritti umani. Ora, gli accordi esistenti sui diritti umani prevedono che in situazioni di emergenza una serie di diritti possano essere derogati temporaneamente, nei limiti necessari per far fronte ad una emergenza conclamata e che rappresenti un grave pericolo per lo Stato e la sua comunità. Ciò comporta che l’emergenza sia ufficialmente dichiarata e che le misure di deroga siano strettamente necessarie per farne fronte. Ma queste misure, è bene ribadirlo, devono avere carattere temporaneo e che non siano discriminatorie. Ci sono però certi diritti che sono inderogabili anche in situazioni di emergenza, come in particolare il diritto alla vita, il diritto a non essere sottoposto a tortura o a schiavitù, e altri diritti di libertà, come quello di opinione. Il rischio è che con il pretesto dell’emergenza, certe misure siano prese in un modo che appare definitivo. Penso, per esempio, alle recenti misure adottate dal Governo ungherese che danno pieni poteri, senza limiti di tempo, al primo ministro, prefigurando così una gestione autoritaria del Paese. Ho fatto questo esempio perché è evidente nella situazione ungherese, ma il rischio che misure prese temporaneamente, soprattutto se l’emergenza non finirà presto, rimangano in vigore e portino a una involuzione autoritaria anche in altri Paesi, anche tra quelli che fanno parte dell’Unione europea, una Unione che peraltro non sta condannando l’Ungheria come avrebbe il dovere di fare secondo precise disposizioni del Trattato costitutivo dell’Ue.
In situazioni di emergenza non c’è il rischio di una crescita delle disuguaglianze?
Purtroppo sì. Nelle emergenze succede che chi sta meglio può far fronte alla situazione creatasi più facilmente, mentre chi sta peggio non ha queste possibilità, nel caso di una pandemia, di curarsi meglio. Più grave è l’emergenza e più le conseguenze di una diversità di trattamento si aggravano. Tengo a insistere sul fatto che le misure adottate per fronteggiare l’emergenza non possono comportare discriminazioni anche di carattere sociale.
Ciò vale anche per le migrazioni?
Poiché la pandemia è basata sul contagio, è evidente che lo spostamento di persone favorisce il contagio, come del resto abbiamo constatato nella diffusione del Covid-19. È possibile che migranti siano portatori di una malattia contagiosa ed è certo giustificato isolarli, come avviene per chiunque, anche su una nave prima dello sbarco. Io credo che il ricacciarli quando a bordo dei barconi o delle navi non vi siano strumenti di protezione, continui ad essere illegittimo per violazione del principio del Diritto internazionale che impone di salvare la vita in mare in situazione di pericolo. In questi casi vanno trovate altre misure con una quarantena sul territorio nazionale di sbarco o con il trasferimento su una nave idonea. Il problema non è molto diverso da quello che si pone in assenza dell’emergenza e richiederebbe una cooperazione internazionale che purtroppo non è stata sempre presente. L’emergenza non può giustificare né trattamenti inumani e degradanti né il mancato rispetto della vita. Questi sono diritti inalienabili anche al tempo del Coronavirus.
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