Va bene, è tutta colpa nostra. Il Covid-19 è conseguenza della urbanizzazione, della deforestazione, del sovraffollamento, degli allevamenti intensivi, della velocità degli spostamenti, della distruzione sistematica dell’ambiente, della civiltà industriale (che tanto piaceva a Marx ed Engels, al netto dell’ingiustizia sociale), del turbocapitalismo. Ce lo meritiamo. E anche se ho letto in Rete che per qualche virologo il salto di specie del virus (lo spillover zoonotico) esiste da sempre, che il coronavirus si è sviluppato da un antenato che potrebbe circolare tra noi da un secolo, etc., è evidente che la globalizzazione non può che alimentare fenomeni del genere.

Ora, non ho dubbi sul fatto che noi siamo la prima civiltà apparsa sulla faccia della Terra a non avere elaborato un senso del limite, a coltivare l’idea perversa di crescita illimitata (per l’economia i beni della natura sono gratis e illimitati, come leggo nell’utile libretto Biosfera, l’ambiente che abitiamo, di E. Scandurra, I. Agostini, G. Attini). Però vorrei sommessamente ricordare a chi dice che noi umani costituiamo una minaccia per il pianeta, che dunque non siamo la soluzione ma il problema, etc., che anche il pianeta è da sempre una minaccia per noi, e per tutte le specie che nel tempo si sono estinte! E che, soprattutto, la natura è un ecosistema fondato non solo un equilibrio dinamico ma sulla guerra di tutti gli organismi contro tutti!

Il Covid-19 ha pur sempre origini naturali, non nasce da manipolazioni di laboratorio. E la natura, come sappiamo noi italiani che abbiamo studiato a scuola Leopardi, è indifferente agli individui e causa di infelicità per tutti gli esseri; oltre ad avere la sgradevole propensione a eliminare brutalmente i deboli e i meno adatti. Proviamo a rileggere la pagina dello Zibaldone, del 1826, sul giardino ridente, e proprio nella più mite stagione dell’anno: «Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento».

Da qui Leopardi passa a un elenco impietoso: «Là quella rosa è offesa dal sole che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone e virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quell’altro è ròso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco.

L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra…» per concludere che «ogni giardino è quasi un vasto ospitale, luogo ben più deplorabile che un cemeterio» (Zibaldone, 4175). Cui si aggiunge, certo, anche l’intervento della «donzelletta sensibile e gentile», che «va dolcemente sterpando e infrangendo steli». Ecco, un brano del genere, del pessimista-vitalista Leopardi, andrebbe fatto presente a chi si commuove sul canto festoso degli uccellini al mattino e poi durante il giorno si abbandona a violente geremiadi contro la colpevole hybris umana (cioè contro la donzelletta gentile, che in fondo non fa altro che adeguarsi al quadro generale).

Ripeto: al mondo può anche far bene fermarsi per un po’, e certo l’economia, ancor prima del capitalismo, non considera tra i suoi costi la distruzione delle risorse naturali (limitate), come sottolinea il libro prima citato (e il fatto che in Italia i Verdi sono al 2% la dice lunga sulla nostra coscienza ecologista). Però meditiamo sulla pagina leopardiana: la natura è un ospedale permanente, fatto di distruzioni, stragi, patimenti, offese, strazi. Ora, per mettere in sicurezza il pianeta, almeno in modo definitivo, occorrerebbe l’estinzione della specie umana (come auspicano i torvi antinatalisti, discendenti degli antichi gnostici). Siamo probabilmente noi il virus principale e più invasivo. Ma, statene pur certi, il pianeta che lasceremmo incontaminato non sarebbe un giardino ridente.