Oltre all’emergenza climatica e a quella demografica l’Italia – persino a sua insaputa – sta vivendo una lunga emergenza parlamentare e forse democratica. Una prova? Negli ultimi vent’anni i governi italiani hanno sfornato una media di 31 decreti legge all’anno. Più o meno tre al mese. Dal momento che la decretazione è ammessa dalla nostra Costituzione solo in casi straordinari di “necessità e urgenza”, vuol dire che da più di vent’anni viviamo in emergenza. Un’emergenza cui provvedono, con minor o maggior ardore i governi, tutti i governi, di tutti i colori, con una produzione normativa che di fatto ha messo in vacanza il Parlamento. Il Sole 24 Ore di pochi giorni fa ha rammentato numeri che forse non sorprendono – perché erano in larga parte noti – ma che dovrebbero allarmare.

Negli ultimi 23 anni il Parlamento ha approvato poco meno di duemila leggi (1998 per l’esattezza), per il 77% (1544 è il numero esatto) di iniziativa governativa. Tra queste sono 577 quelle che hanno convertito i decreti legge (ne sono stati varati addirittura 715, appunto più o meno tre all’anno). Intendiamoci, questo stato di emergenza prolungato è stato regolarmente certificato dal capo dello Stato, nelle diverse persone che hanno occupato pro tempore il Quirinale. Senza la firma del presidente della Repubblica non si promulgano leggi e tantomeno si procede all’emanazione di decreti legge. Ma sì, qualche rampogna sulla decretazione è piovuta su Palazzo Chigi, soprattutto durante la permanenza di Giorgio Napolitano, e soprattutto contro Silvio Berlusconi, che non ha fatto nulla di molto diverso da quello che hanno fatto Gentiloni, Draghi o Conte (o Meloni). Ma questa sarebbe un’altra storia, quella in cui l’arbitro è tentato di fare anche il giocatore. La questione che mi piace sottolineare è invece un’altra: la sostanziale rinuncia del Parlamento all’esercizio di un suo potere specifico e costituzionale, ovvero quello legislativo.

La legislazione d’iniziativa del governo in questi ultimi vent’anni è stata in media del 77%. Nella legislatura in corso è (per ora) scesa al 71% mentre aveva raggiunto il 79% in quella precedente (con i governi Conte e Draghi) e nella quattordicesima legislatura; addirittura l’88% nella quindicesima legislatura, durata appena 732 giorni, con il secondo governo Prodi a palazzo Chigi. Non ce ne siamo accorti, ma abbiamo vissuto gli ultimi 23 anni di vita italiana chiusi in una sorta di “war room”, dove la straordinarietà ha preso il sopravvento, con la perenne giustificazione dell’urgenza. Una vera emergenza parlamentare e legislativa o solo una forma di quella follia legislativa che da anni ci fa riconoscere come un caso di ipertrofia normativa? Sabino Cassese ripete spesso, inascoltato, che “sarebbe auspicabile una sospensione dell’attività normativa, da attuare con leggi delegificanti, per liberarci dei vincoli del passato”.

Ma al massimo si procede con periodici e folkloristici roghi di piazza – ai quali è affezionato il ministro Calderoli – che non scalfiscono il problema. Si stima che il Belpaese sia seduto su una montagna di ben 160.000 norme, tra leggi, regolamenti, ordinanze di cui poco più di 71.000 approvate a livello nazionale e le rimanenti 89.000 promulgate dalle Regioni e dai vari enti locali. Un groviglio legislativo che è 10 volte superiore al numero complessivo di provvedimenti di legge presenti in Francia (7.000), in Germania (5.500) e nel Regno Unito (3.000) messi insieme. La frenesia normativa, quasi tutta intestata ai governi, a sua volta fa da contraltare all’accidia con cui si procede (meglio: non si procede) all’attuazione.

Una sovrapproduzione normativa che ha ingessato il paese, generando la cattiva fama della burocrazia, che spesso finisce per essere a sua volta vittima di norme pletoriche e mal scritte, e i costi aggiuntivi al sistema economico: per destreggiarsi nell’espletamento delle procedure amministrative imposte dalle norme si stima che occorrano oltre 500 ore di lavoro (in media) in un’impresa, che equivarrebbero a un costo complessivo pari a 103 miliardi di euro, di cui 80 sulle spalle delle Pmi e 23 su quelle delle grandi imprese. In queste condizioni si avverte ancora più urgente l’esigenza di poter contare su raccoglitori dove trovare le norme che cerchiamo. Codici o tutt’al più i testi unici: i primi riassestano le regole e allo stesso tempo semplificano dove possibile, eliminano quelle ridondanti e quelle obsolete, vanno avanti cercando di innovare; i secondi hanno carattere soprattutto compilativo. Ma almeno si conseguirebbe l’obiettivo non trascurabile di quella unitarietà normativa che è inversamente proporzionale alla sua “quantità”. Quindi l’emergenza c’è tutta, accentuata, non risolta, dalla sovrapproduzione normativa. Chi ci governa, da anni, sembra preoccupato di renderci la vita più complicata, salvo poi giustificare questo stato indotto in una periodica e straordinaria condizione di “necessità e urgenza”.

Antonio Mastrapasqua

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