La prima è stata Anita, studentessa dodicenne della scuola media “Italo Calvino” di Torino che, alla maniera di Greta Thunberg, ragazzina svedese ambientalista famosa in tutto il mondo, per fare lezione si è sistemata sui gradini della scuola; poi sono arrivati tutti gli altri, in varie parti d’Italia con banchi e sedie posti fuori dagli istituti, in spazi all’aperto, quaderni, penne e cellulari. Cosa vogliono questi ragazzi e ragazze, spesso accompagnati e sostenuti da genitori e insegnanti?

Alcuni, rovesciando l’immagine di Pinocchio, pronto a vendersi l’abbecedario regalatogli da Geppetto per disertare l’aula e godersi piuttosto lo spettacolo di Mangiafuoco, vorrebbero tornare direttamente nelle loro aule: quando gli si fa notare che i morti per Covid sono troppi, essi rispondono affermando che la scuola è sicura; non altrettanto, sono costretti ad ammettere, si potrebbe dire per il sistema dei trasporti: nel nostro Paese, in particolare, gli assembramenti sui mezzi pubblici, perfino praticando frazionamenti in entrata e uscita, sarebbero comunque molto pericolosi contribuendo ad accrescere, nelle presumibili infezioni familiari a danno dei più anziani, la curva dei contagi con le inevitabili deleterie ripercussioni sulla già critica struttura sanitaria che rischierebbe il definitivo collasso. Il dibattito continua a essere aperto.

Ma la notizia che registriamo adesso, a ben riflettere, è un’altra: gli adolescenti desiderosi di varcare i cancelli scolastici fanno comprendere a ognuno di noi la centralità dell’istruzione in presenza. Alla quale non possiamo rinunciare facilmente. Non tanto e non solo perché elementari e medie, licei e istituti tecnici e professionali costituiscono un presidio etico insostituibile in numerose zone del territorio nazionale, il vero tessuto sociale connettivo del Bel Paese, la cerniera spesso contestata ma fondamentale che tiene insieme famiglie e istituzioni pubbliche, cultura del passato e progetti rivolti al futuro, forgiando altresì il carattere e la coscienza dei cittadini di oggi e domani, quanto perché la didattica a distanza, unico inevitabile appiglio in questa fase di emergenza, resta un misero sostituto di quella in presenza, paragonabile secondo certi esperti alla riproduzione di un quadro rispetto alla visione dell’originale.

È vero che stiamo sperimentando sistemi nuovi di trasmissione del sapere che potranno tornarci utili nel momento in cui l’epidemia ci darà finalmente un po’ di tregua. Tuttavia spiegare le materie di studio al computer non è lontanamente paragonabile all’intensità dell’esperienza conoscitiva che possiamo realizzare in aula. Fra il maestro e i suoi scolari riuniti insieme gomito a gomito nello spazio fisico della didattica in corso d’opera si forma una corrente spirituale inesprimibile, fatta di sguardi, parole, intuizioni, gesti, movimenti e pensieri che è la matrice stessa dell’educazione, il suo spirito più autentico: perfino le tensioni che scattano fra l’adulto e i giovani, le ferite e i punti di sutura, rappresentano l’essenza intima della storia tutta, nel passaggio entusiasmante, benché spesso tormentato, da una generazione all’altra.
Eppure quante emozioni stanno nascendo in questo momento drammatico in cui molti di noi si sentono sotto scacco!

È come se fossimo tutti Davide contro Golia. Nelle scuole Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati stiamo coinvolgendo centinaia di persone in numerose città affiancando al lavoro dei docenti quello degli studenti delle medie superiori. Ed ecco un solo esempio di ciò che sta accadendo in concreto. Fulvio, nostro volontario, si collega con Ayawovi, una ragazza africana del Togo il cui nome significa lunedì, giorno della sua nascita. Lei tiene in braccio il bambino piccolo di pochi mesi. Ad aiutarla nell’apprendimento c’è Sveva, del liceo “Pilo Albertelli” di Roma, la quale svolge in questo modo il proprio tirocinio formativo.

Tre esperienze entrano a confronto: quella dell’adulto che facendo volontariato scopre il valore del gesto gratuito; quella della liceale che, se non avesse avuto questa occasione, non avrebbe mai potuto conoscere una ragazza poco più grande di lei già segnata dalla vita; quella dell’immigrata, impegnata a scoprire in una nuova dimensione verbale gli ingranaggi espressivi necessari per integrarsi nella società italiana. Ne scaturisce un nucleo di resistenza umana e culturale che non dovrebbe passare inosservato. Sullo schermo scorre il testo di un racconto che Ayawovi legge passo passo mentre Sveva controlla e corregge la pronuncia.

Io, dopo qualche battuta iniziale per conoscere i protagonisti dell’impresa scolastica, mi limito ad assistere dall’esterno. Durante la lettura l’allieva coscienziosa chiede il significato di certi termini: cosa vuol dire “crociera”? Sveva è brava a semplificare: una vacanza in barca. E così sullo sfondo compare il contrasto insanabile, plasticamente rappresentato sulla piattaforma digitale, fra chi paga fior di quattrini per trastullarsi in mare e chi invece rischia di affogare nel tentativo di sbarcare sulle nostre coste. Inevitabile andare con la mente alla giovane mamma che, qualche settimana fa, al largo di Lampedusa, gridava disperata dal gommone alla ricerca del neonato appena scomparso nei flutti: “I lose my baby!”.

Credo che noi insegnanti osservando Ayawovi mentre imparava l’uso dei verbi e dei nomi col figlioletto attaccato al collo, placidamente addormentato, avremmo voluto idealmente ripescare il piccolo naufrago per restituirlo a sua madre. Purtroppo nella realtà non è stato possibile ma in futuro, quando torneremo a scrivere e leggere guardandoci negli occhi e battendoci la mano sulle spalle, se non dimenticassimo l’intensità emotiva trascorsa sullo schermo del tablet dalla rifugiata africana alla liceale italiana impegnata a sostenerla nello studio della nostra lingua, avremmo compreso, al di là di ogni distinzione, ciò che dovrebbe davvero essere la scuola.