L’11 novembre Open Arms ha salvato 100 naufraghi dopo che il loro gommone si era spezzato, ma sei persone, tra cui Joseph di sei mesi, sono morte. Il soccorso medico, allertato da Open Arms, non è giunto in tempo e il piccolo è morto poco dopo essere stato tratto in salvo. Sarebbe un grave errore attribuire questa ennesima tragedia a un ritardo nel soccorso medico perché le responsabilità di queste, come delle altre innumerevoli morti in mare, vanno ricercate altrove: nella medesima causa ovvero nella mancanza di un effettivo piano istituzionale di soccorsi nel Mediterraneo e nella contemporanea criminalizzazione delle associazioni umanitarie che ancora si ostinano a operare in nome di un senso di umanità largamente perduto nella società e in attuazione del diritto internazionale sul soccorso in mare.

Nel Mediterraneo, uno dei tratti di mare più trafficati e monitorati al mondo, da molti anni non c’è più alcun programma di soccorso realizzato dagli Stati, né da quello italiano, né dall’Unione europea. Dopo la fine di Mare Nostrum si è spenta l’operazione Triton (la cui impostazione era già molto diversa, meno orientata al soccorso) e infine persino la assai discussa operazione Sophia, nata nel 2015 e il cui obiettivo principale non era il soccorso bensì il contrasto al traffico di migranti nel tratto di mare fra Italia e Libia, è stata progressivamente depotenziata e ha infine cessato del tutto le sue funzioni a marzo 2020 per essere sostituita da nulla.

Per ottenere l’obiettivo di far cessare del tutto i soccorsi era però necessario anche rabberciare una tesi “tecnica” o parascientifica e metterla in circolazione attraverso tutti i canali possibili: si tratta della tesi del pull-factor, in base alla quale organizzare soccorsi in mare avrebbe avuto l’effetto di favorire i trafficanti, accrescere le partenze e quindi, di fatto, di aumentare e non diminuire il numero dei morti. L’infondatezza scientifica di tale tesi, concretamente una abile fake news lanciata dall’agenzia Frontex a fine 2016, è stata evidenziata da molti studi tra i quali ricordo qui, senza pretese di completezza, il rapporto Blaming the Rescuers a cura di Charles Heller e Lorenzo Pezzani del giugno 2017 e nel novembre 2019 l’ottimo studio Sea Rescue NGOs: a Pull Factor of Irregular Migration di Matteo Villa e Eugenio Cusumano per lo European University Institute, che esamina gli sbarchi in Italia dal 2014 al 2019.

Chi, ritenendo in buona fede valida la pur fallace tesi del pull-factor, si aspettava che la cessazione dei soccorsi fosse però compensata (come pure era stato annunciato) dall’avvio di una robusta politica europea di avvicinamento della protezione a chi ne ha bisogno, ovvero confidava nel dispiegarsi di un piano europeo di reinsediamento dei rifugiati intrappolati in paesi di transito oppure nell’avvio di strategie innovative che vanno nella medesima direzione quali il rilascio di visti umanitari, ha dovuto prendere atto che nulla di tutto ciò è accaduto. Diversamente da un’opinione largamente diffusa, le aree più ricche del mondo accolgono sempre meno rifugiati in percentuale al bisogno globale e (dati Unhcr 2020) l’assoluta maggioranza dei migranti forzati (l’85%) vive in paesi poveri e, addirittura, i paesi in assoluto più poveri del mondo accolgono il 27% di tutti i migranti forzati.

Nella cosiddetta “Agenda per le Migrazioni” della Commissione Juncker (2015), che pure era orientata a una sostanziale chiusura, era tuttavia previsto l’avvio di un piano europeo di reinsediamento di rifugiati da paesi terzi con quote vincolanti per tutti gli stati membri. Non se ne fece nulla. Il nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo proposto a fine settembre dalla nuova Commissione UE (vedasi anche la mia analisi sul Riformista del 26 settembre 2020) abbandona di fatto questa prospettiva: nelle poche e vacue frasi dedicate a questi temi, il reinsediamento viene nuovamente proposto come scelta del tutto volontaria da parte dei paesi membri della UE e comunque, anche invocando il covid-19, la Commissione rinvia al 2022 ogni ipotesi di intervento sulla materia.

Una certa apertura è invece contenuta nel Patto laddove esso riconosce che «portare assistenza a persone in pericolo in mare è un dovere morale e un obbligo ai sensi del diritto internazionale» e invoca la necessità di riconoscere «la specificità della ricerca e del soccorso in mare nel quadro giuridico dell’UE in materia di migrazione e asilo» nonché la necessità di «evitare la criminalizzazione degli operatori umanitari». Un fatto inedito, o quantomeno sottovalutato, che ha complicato la politica di abbandono dei soccorsi in mare è stato la tenacia delle organizzazioni umanitarie che hanno continuato a operare i soccorsi nei limiti delle loro possibilità.

Non solo esse hanno continuato ad agire, ma, fatto ancor più irritante, sono divenute testimoni scomodi della pianificata operazione di morte decisa nel Mediterraneo. Su di esse si è quindi scatenato l’inferno: i soccorritori sono stati accusati di ogni nefandezza possibile, dall’essere al centro di finanziamenti oscuri fino alla piena complicità con coloro che organizzano il traffico di esseri umani. Se la criminalizzazione delle Ong è stata al centro dell’azione delle formazioni politiche sovraniste e legate all’estrema destra xenofoba, i governi di orientamento politico cosiddetto moderato si sono mossi, a ben guardare, nello stesso solco, solamente attenuando i toni della loro comunicazione pubblica. I fatti italiani sono tristemente noti, dal “codice di condotta” voluto dal pessimo ministro Minniti fino al cosiddetto decreto sicurezza bis (d.l. 4 giugno 2019 n. 53, convertito con modificazioni dalla Legge 8 agosto 2019, n. 77) e non ha senso approfondirli oltre.

Una svolta di questa ripugnante politica di morte non sembra ancora vicina, in quanto continuano tutt’oggi le attività amministrative, in particolare quelle facenti capo al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con le quali si cerca di impedire alle stesse Ong di operare (nonché si continua a investire ingenti fondi per attività di monitoraggio del canale di Sicilia senza però alcun riferimento a operazioni di soccorso). Alcuni faranno osservare che però una svolta è in realtà giunta con il d.l. 21 ottobre 2020, n. 130 attualmente in sede di conversione (proprio ieri è iniziata la discussione nella Commissione Affari Costituzionali della Camera). Ciò è vero solo in minima parte, perché la norma voluta dall’Esecutivo apporta significative correzioni alla citata L.77/2019 ma il testo adottato rimane assai confuso e ambiguo.

Soprattutto permane nella norma una ostilità di fondo verso le operazioni di soccorso in mare delle Ong che potrebbero con facilità vedersi trascinate in tribunale per rispondere di operazioni di soccorso non effettuate nel rispetto della “competente autorità per la ricerca e il soccorso” e che si sono semmai concluse con trasporto dei naufraghi verso un porto diverso da quello del Paese nella cui area SAR (Search and Rescue) è avvenuto il soccorso (ricordo che anche il naufragio dell’11 novembre è avvenuto in acque SAR libiche). È pertanto veramente necessario che in sede di conversione in legge il testo voluto dal Governo venga abrogato o che in subordine esso venga almeno profondamente modificato, chiarendo senza più possibilità di equivoci che in nessun caso costituiscono reato le operazioni di soccorso dei naufraghi effettuate in base al diritto internazionale del mare e nel rispetto della convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (in particolare l’art. 3) e del principio di non refoulement.