La comunicazione della Commissione Ue al Parlamento e al Consiglio per un nuovo patto europeo sull’immigrazione e l’asilo si comprende se si evita di perdersi nelle singole proposte, spesso formulate in modo volutamente generico e talvolta tra loro contraddittorie, bensì se si esaminano i paradigmi sui cui la proposta stessa si fonda, che ritengo siano così sintetizzabili:

1) bisogna in ogni modo impedire od ostacolare l’arrivo delle persone in Europa. La definizione di accordi tra l’Unione e paesi terzi per effettuare i rimpatri necessari e contrastare il traffico internazionale degli esseri umani è parte ineludibile di qualsiasi politica sulle migrazioni ma la questione di fondo è a quali condizioni si effettuano tali accordi e programmi e come va garantito un effettivo rispetto dei diritti fondamentali delle persone che non si traduca né nel rimpatrio delle persone verso territori in cui possono essere soggetti a torture e trattamenti disumani e degradanti vietati dall’art. 3 della Cedu, né in misure che impediscono ai rifugiati di accedere al territorio dell’Unione per chiedere protezione. Tutti questi temi cruciali sono elusi dalla Commissione e ogni iniziativa, anche la più spregiudicata e contraria ai valori e di principi dello stato di diritto sembra dunque potere essere realizzabile con paesi terzi extra Ue, se ciò è utile al conseguimento degli scopi.

2) Gli stranieri che, comunque, giungono in Europa per chiedere protezione, vanno bloccati nel maggior numero possibile nei paesi aventi frontiere esterne al fine di esaminare le loro domande di asilo attraverso una procedura di frontiera avente caratteristiche di estrema rapidità e di riduzione al minimo delle garanzie procedurali. La nozione di procedura di frontiera è presente da molti anni nel diritto dell’Unione ma ora si dilaterebbe in modo abnorme fino a comprendere parte significativa di tutte le domande di asilo in quanto verrebbe applicata (sul punto il testo è volutamente ambiguo) a tutte le domande di coloro che provengono da paesi di origine considerati sicuri o di paesi terzi sicuri (nozioni entrambe molto scivolose), da aree interne considerate sicure nel paese di origine e in generale verso tutti coloro il cui tasso di riconoscimento della domanda di protezione, in relazione alla nazionalità, è inferiore al 20%.

Questo approccio, oltre che estremamente pericoloso sotto il profilo del rispetto del diritto d’asilo, aumenta in modo netto il numero dei richiedenti che verrebbero bloccati nei paesi di primo ingresso. La Commissione si affretta a rassicurare che si tratterebbe di procedure molto veloci ma così non è con pacifica evidenza, sia in ragione della necessità di garantire un esame equo a un alto numero di domande, sia in ragione dei tempi per la valutazione dei ricorsi avverso i dinieghi. Durante tutto il periodo di permanenza negli stati di primo ingresso dove verrebbero ospitati i richiedenti? Il testo della Commissione sorvola con eleganza sul punto ma è chiaro che la procedura di frontiera è connessa con la logica del confinamento in campi prevedendo misure di vera e propria detenzione o di forte limitazione della libertà di circolazione; si tratterà di grandi strutture perché le grandi dimensioni, l’isolamento geografico, l’inattività forzata degli ospiti sono caratteristiche intrinseche alla logica dei campi.

La procedura di frontiera è, a ben guardare, più di una criticabile procedura con poche garanzie in quanto la definizione usata dalla Commissione di “asylum and return border procedure” mette insieme nozioni che, sia sul piano giuridico che su quello politico-sociale, dovrebbero rimanere nettamente distinte. Se il pernicioso processo, in atto da anni, di esternalizzazione delle frontiere in paesi terzi mira a impedire od ostacolare l’accesso dei rifugiati al territorio dell’Unione, viene eretta ora una sorta di nuova linea di frontiera che si trova però all’interno dell’Europa stessa, nei suoi paesi più esterni, ai quali delegare lo svolgimento di un ruolo di controllo e di filtro degli ingressi.

Italia e Grecia in particolare sarebbero quindi destinati a divenire dei giganteschi hotspot dei richiedenti asilo in attesa dell’esame preliminare, di quelli in attesa di una incerta distribuzione verso gli altri Paesi e infine del ben più ampio numero delle persone da espellere; di queste ultime si dovrebbe ovviamente occupare infatti il paese di primo ingresso nel quale si trovano o regolarizzandoli in qualche modo sulla base della sua normativa interna o attuando l’espulsione verso il paese di origine ovvero verso Paesi terzi non UE dal quale gli stranieri sono giunti. In soccorso dello Stato coinvolto in questo compito verrebbe un altro Stato dell’Unione che sosterrebbe le spese del rimpatrio assolvendo in tal modo ai suoi obblighi di solidarietà e di reciproca condivisione delle responsabilità.

Colpisce l’uso disinvolto dei concetti: la Commissione conia la curiosa espressione di “return sponsorship” ovvero sponsorizzazione del ritorno, elegante modo per indicare il pagamento del rimpatrio forzato mentre la responsabilità e la condivisione delle responsabilità, nozioni fondamentali nel Trattato di Lisbona (art. 80) vengono degradate a mero pagamento del lavoro svolto da altri Stati.

3) Che ne è, in questo quadro, della redistribuzione dei richiedenti asilo che passano le forche caudine della procedura di frontiera? Si illude chi pensa che almeno nei confronti di questa quota di richiedenti scatti il principio dell’obbligo di distribuzione sulla base di parametri oggettivi.

La Commissione si limita ad affermare che la distribuzione verrà fortemente sostenuta e che coloro che sono soccorsi nel Mediterraneo avranno un canale prioritario ma la contorta concezione della solidarietà di cui sopra permetterà ai Paesi che non vogliono accogliere nessuno o pochi di continuare a pagare affinché altri lo facciano o a pagare i rimpatri. Incoerente e strampalata la comunicazione della Commissione è destinata, credo, ad arenarsi al più presto lasciando però l’Europa, ovvero tutti noi, nella penosa e grave situazione di assoluta mancanza di un disegno di governo delle migrazioni all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte.