La testa dell’Idra
La guerra di sopravvivenza di Israele che riscrive la geopolitica del Medio Oriente: sta facendo il “lavoro sporco” per l’Occidente
Da cinque giorni è in corso l’operazione Leone Nascente: una serie di attacchi aerei, cibernetici e di intelligence condotti con estrema precisione contro il vertice militare e contro il cuore del programma nucleare iraniano. Dalle prime ore del 13 giugno – dopo 619 giorni di guerra contro le milizie armate e dirette dall’Iran – Israele ha iniziato la battaglia finale per la propria sopravvivenza. Un’azione che, sebbene tecnicamente “improvvisa”, era da mesi ampiamente annunciata a chi era disposto ad ascoltare. I servizi occidentali avevano recentemente ottenuto le prove che l’Iran aveva a disposizione uranio 235 arricchito ben oltre il 60%, molto di più dell’arricchimento necessario per alimentare reattori nucleari pacifici (dove basta ottenere un arricchimento del 3,5%) ma più che sufficiente per realizzare almeno 15 bombe nucleari da caricare su altrettanti missili balistici, destinazione Israele. Non si poteva attendere un giorno di più.
Con una combinazione micidiale di guerra elettronica, droni a lungo raggio e caccia stealth, l’aviazione dello Stato Ebraico ha messo fuori uso hangar sotterranei, impianti di arricchimento dell’uranio e radar strategici, paralizzando in un colpo solo le capacità nucleari e difensive dell’Iran. I bersagli dell’operazione sono stati scelti con cura chirurgica. Il sito di Natanz, da anni simbolo dell’ambizione atomica di Teheran, è stato completamente annientato, sia nella parte visibile che nei suoi comparti sotterranei. A essere colpiti con identica precisione anche i centri nucleari di Khondab, Khorramabad, Esfahan e Arak, considerati fondamentali per l’arricchimento dell’uranio e la conservazione del materiale fissile. In parallelo, squadre speciali israeliane – infiltrate da settimane in territorio iraniano – hanno sabotato infrastrutture ausiliarie, linee di comunicazione e impianti radar, lasciando le forze iraniane cieche e incapaci di reagire. Diverse basi delle Guardie Rivoluzionarie (Pasdaran) sono state distrutte, incluse quelle a ridosso di Teheran.
La sede centrale del corpo d’élite è stata spianata insieme a depositi missilistici, centri comando e residenze blindate dei vertici militari. Il giorno successivo, le forze aeree israeliane hanno iniziato a bombardare l’aeroporto internazionale Mehrabad e un altro obiettivo sotterraneo nel nordovest usato per nascondere dozzine di missili balistici. Il 15 le fabbriche di armi e le basi militari di Shiraz sono state rase al suolo, mentre è stato colpito anche l’aeroporto Mashhad Shahid Hasheminejad, fino ad allora considerato fuori portata perché a oltre 2250 km da Israele. Dopo le infrastrutture militari, Israele sta provvedendo a togliere all’Iran anche la sua principale fonte di reddito: la raffineria di Fajr Jam e la piattaforma 14 del campo a gas di South Pars sono in fiamme. Questo è quello che sappiamo, ma un bilancio completo sarà reso pubblico solo dopo che la polvere sarà ricaduta; sugli Ayatollah. Intanto, i satelliti spia stanno identificando e seguendo i camion speciali, ciascuno in grado di trasportare due missili balistici, che in queste ore stanno fuggendo dalle basi militari per disperdersi sul vasto territorio circostante sperando di salvarsi dalla distruzione.
Decapitazione militare e strategica
Il cuore dell’operazione, però, non si è limitato agli impianti fisici. Israele ha colpito direttamente l’establishment militare iraniano. Tra i bersagli eliminati figura Hossein Salami, comandante in capo delle Guardie Rivoluzionarie. È stato ucciso anche Gholam Ali Rashid, comandante del centro strategico Khatam-al Anbiya. Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate, è stato dichiarato disperso, ma secondo fonti d’intelligence israeliane sarebbe rimasto ucciso. Colpiti anche i due principali artefici del programma nucleare militare: Fereydoun Abbasi-Davani e Mohammad Mehdi Tehranchi, eliminati nelle rispettive abitazioni iperprotette e poi seguiti, nei due giorni successivi, da altri 12 scienziati impegnati nel programma nucleare militare.
Il 14 è toccato ai generali Gholamreza Mehrabi, vicecapo dell’intelligence per lo stato maggiore delle forze armate, e a Mehdi Rabbani, vicecapo delle operazioni. Il 15 un attacco contro il bunker dell’intelligence dell’esercito ha eliminato altri due generali: il comandante in capo dell’intelligence Mohammad Kazemi ed il suo vice, Hassan Mohaqiq. Un attacco sul comando dell’aeronautica ha spazzato via il comandante delle forze aeree, Amir Ali Hajizadeh, oltre al capo della difesa aerea, Davoud Shaykhian, e delle unità droni, Taher Pour. L’obiettivo è chiaro: una decapitazione del comando, finalizzata a paralizzare ogni reazione efficace. E, stando alle prime analisi, l’operazione sta ottenendo proprio questo risultato. “Se salta la testa, il corpo non si muoverà più”, ha dichiarato una fonte israeliana riservata.
L’Occidente? Non pervenuto: “il lavoro sporco” per tutti
Il raid israeliano, imponente per mezzi, efficacia e portata strategica, viene condotto senza alcun appoggio esterno. Nessun Paese europeo ha contribuito. Nessun alleato ha fornito supporto operativo. Dai partner storici sono arrivati solo comunicati di rito e appelli alla moderazione. Persino gli Stati Uniti, sotto la presidenza di Donald Trump, si sono defilati: il personale diplomatico è stato evacuato in anticipo, e le poche dichiarazioni ufficiali non hanno espresso né condanna né sostegno. Israele, dunque, “sta facendo il lavoro sporco anche per chi ha sempre promesso e mai mantenuto”, come ha commentato in forma anonima un alto ufficiale. E non è la prima volta: nel 1981 distrusse il reattore di Osiraq in Iraq, nel 2007 cancellò in silenzio quello siriano. Oggi, nel 2025, ha agito un attimo prima della catastrofe impedendo che l’Iran entrasse nella ristretta cerchia delle potenze nucleari – e ne approfittasse immediatamente per incenerire Tel Aviv.
Uno scenario ancora instabile
Nonostante il successo dell’operazione, la minaccia regionale non è svanita. Come abbiamo scritto – sempre qui su Il Riformista – si stanno riorganizzando gruppi armati finanziati e armati da Teheran: Hezbollah in Libano, le milizie sciite in Siria e Iraq, Hamas e numerose altre bande, fra le quali la stessa Jihad Islamica a Gaza. E soprattutto gli Houthi nello Yemen, che da mesi minacciano il traffico navale nello Stretto di Bab el-Mandeb, colpendo navi commerciali e lanciando missili verso il territorio israeliano. Ma sta venendo meno il comando strategico che orchestrava queste azioni. “Senza cervello, il mostro barcolla”. E sebbene la situazione resti fluida, l’Iran dovrà ora affrontare non solo la perdita delle sue infrastrutture nucleari e del denaro che deriva dalla vendita degli idrocarburi (in barba alle numerose sanzioni), ma anche un vuoto di comando mai registrato prima nella sua storia recente.
La reazione senza limiti
Il regime – fermato proprio “alla dodicesima ora”, non ha ormai più nulla da perdere: dopo aver colpito duramente i suoi proxy, da Hamas, a Hezbollah agli Houti, al regime di Assad, Israele ha cambiato strategia e sta affondando il colpo finale alla testa dell’idra. All’interno del Paese, le proteste aumentano e le opposizioni si stanno organizzando: dal 1979 il regime degli Ayatollah ha impoverito l’intera popolazione, ha speso tutte le risorse disponibili per l’unico obiettivo di cancellare Israele dalla faccia della Terra (l’Imam Khomeini lo aveva pacatamente definito “un cancro in metastasi da sradicare per ottenere la pace islamica”) ed ora si ritrova coi caccia con lo Scudo di David che sorvolano impuniti Teheran. A differenza di quanto successo nei precedenti scontri, la risposta della “Repubblica” Islamica non si è fatta attendere: non hanno esitato a lanciare oltre 200 missili balistici e un centinaio di droni Shahed. Probabilmente buona parte di quelli sopravvissuti ai primi attacchi aerei: fonti del Mossad hanno indicato che il patrimonio di missili a lungo raggio pronti all’uso, solo pochi giorni fa si contava nell’ordine delle migliaia.
Il sistema di difesa di Israele – che abbiamo descritto in un approfondimento sempre qui su Il Riformista – ha abbattuto la maggior parte delle minacce, ma in questi quattro giorni alcuni missili sono comunque riusciti a passare ed a colpire obiettivi esclusivamente civili: fra questi, una dozzina sono caduti su Tel Aviv, ed altri su Rishon, LeZion, Gerusalemme. Colpita anche l’Università Weizmann. Si contano già 500 feriti e le prime 24 vittime, tutte civili. I cittadini di Israele vivono ormai da tre giorni nei Mamad (i bunker privati costruiti sotto le singole abitazioni) o lavorano all’esterno, ma sempre a meno di 10 minuti di distanza dal più vicino Miklat (i bunker pubblici), le scuole sono chiuse, nei momenti di tregua si controllano le scorte e si recupera tutto il necessario. Compresi libri, giochi di società e quaderni per i bambini, che devono continuare a studiare: nessuna scusa è valida nemmeno quando suonano le sirene.
Israele e la dottrina della sopravvivenza
L’operazione iniziata nella notte del 13 giugno ed ancora in corso segna uno spartiacque. In un contesto internazionale paralizzato da retorica, burocrazia e compromessi infiniti, Israele ha scelto di agire. Non per espandere i propri confini, non per motivi ideologici o economici, ma per sopravvivere. Come ha fatto in passato, anche stavolta ha agito da solo. E lo ha fatto “senza proclami, senza passerelle”, con lucidità e freddezza. Il messaggio è chiaro: quando la minaccia è esistenziale, non c’è spazio per l’attesa. E se da oggi il Medio Oriente inizia a respirare un po’ meglio, lo deve a chi si è assunto – da solo – le proprie responsabilità di fronte al mondo e di fronte alla Storia ed ha agito mentre gli altri discutevano.
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