La trattativa s’incardina verso le otto di sera. Si sviluppa nella serata e matura entro stamani quando le fibrillazioni di Giuseppe Conte sul decreto Ucraina e l’aumento delle spese militari fino al 2% del pil dovrebbero essere domate tra virgole, percentuali e un lessico più adeguato. Palazzo Chigi ha incaricato due ambasciatori di livello – il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà e il sottosegretario con delega agli Affari europei Enzo Amendola (Pd) – di riunire tutti i capigruppo di maggioranza e lavorare fino al raggiungimento di un’intesa. L’appuntamento era ieri sera alle 20.

Il mandato è chiaro: nessuna fuga in avanti da parte di nessuno, meno che mai del governo; necessità di mantenere gli impegni presi a livello internazionale e in sede Nato (il 2% del pil di ogni paese da destinare alle spese militari entro il 2024); disponibilità nel dilazionare gli stessi impegni presi e nel definire al meglio – spiegava ieri pomeriggio una fonte di governo vicino al ministero della Difesa – che “la spesa militare non deve essere per forza destinata a caccia e carri armati ma può invece essere tarata soprattutto su investimenti tecnologici”. Satelliti, esperti e cybertecnologia per combattere la guerra “ibrida” che è lo sviluppo naturale dei conflitti del futuro. E del presente. Basta pensare all’attacco cyber subito da Trenitalia in questi giorni: alcuni server zeppi di dati sono stati presi in ostaggio dai cybeterroristi e pende tuttora (salvo soluzioni nelle ultime ore) la richiesta di un riscatto di qualche milione di euro.

Dettaglio non confermato dalla fonte primaria: pare che il sistema di sicurezza antivirus fosse Kaspersky. Che il decreto Ucraina ha infatti messo al bando dalla Pubblica amministrazione italiana. Anche questa è guerra. Ed è questa la minaccia che dobbiamo temere di più nel momento in cui affidiamo le nostre vite e i nostri segreti al cloud digitale. Basta intendersi quindi con le parole. E col senso delle cose. Messa così – che è come deve essere messa – la minaccia di Giuseppe Conte (“il governo non forzi la mano sul decreto Ucraina e l’aumento delle spese militari”) dovrebbe rientrare. Il neo biseletto Presidente 5 Stelle – su cui però pende la spada di Damocle di un secondo ricorso a cui l’avvocato Lorenzo Borrè sta già lavorando – farebbe “cappotto”, che poi è la cosa che gli interessa di più: ha alzato una bandierina identitaria come il pacifismo 5 Stelle che alle origini voleva uscire dalla Nato (e il sentimento anti Nato è ancora molto forte); ha capitalizzato consenso per l’elezione a presidente che si è chiusa ieri sera; ha incassato la convocazione a palazzo Chigi (oggi alle 17.30) per un “chiarimento diretto con Draghi”; ha preso spazio nel centrosinistra intercettando l’anima pacifista e neneista (né con Putin né con la Nato) rimasta orfana di due partiti, Pd e Leu che hanno appoggiato da subito la resistenza Ucraina e l’invio di armi.

Tutto ciò non può aver fatto piacere ad Enrico Letta e al suo progetto di “campo largo” per le elezioni del 2023. Non solo: nel “cappotto” di Conte dobbiamo inserire anche qualche “lunghezza” messa tra sé e il “rivale” Di Maio attivissimo in queste settimane sul doppio fronte della guerra in cerca della pace e della diversificazione energetica. Così, se alla fine Conte potrà sorridere, al Nazareno si mastica amaro interrogandosi su “quante altre bandierine dovrà alzare Conte nei prossimi mesi”. E sul dualismo sempre più evidente Conte-Di Maio. Fino a che punto – si chiedono al Nazareno – possiamo sopportare un campo largo con un Movimento sempre più dibbatistizzato? Ma la cronaca politica degli ultimi anni ci ha abituati a repentini cambi di programma. E c’è sempre meno posto per l’opportunismo politico e l’incoerenza. E’ doveroso infatti ricordare che la decisione di portare le spese militari al 2% del Pil fu presa dall’Italia nel 2014. In questi anni l’impegno è stato disatteso (non solo dall’Italia) ma nessuno dei Presidenti del Consiglio che si sono succeduti – meno che mai Conte – lo hanno smentito. In queste ore – con una guerra in corso nel cuore dell’Europa, a duemila km dai nostri confini – è urgente onorare quell’accordo. Non si tratta di “scelte emotive” dettate dalla “fretta”. Si chiama necessità. Se non ora, quando? Ecco che sa molto di posizionamento e opportunismo elettorale l’alzata di scudi di Conte in nome di un presunto pacifismo e di un paio di miliardi – tanto sarebbe la spesa nel 2022 – che andrebbero a suo dire “dirottati senza se e senza ma alle famiglie e alle imprese schiacciate dalla crisi”.

Va inquadrato nella stessa casella – opportunismo politico e ricerca di consenso – l’ordine del giorno che Fratelli d’Italia presenterà tra oggi e giovedì al Senato dove si voterà il decreto Ucraina. E’ lo stesso odg a favore delle spese militari – presentato alla Camera la scorsa settimana e votato anche dai 5 Stelle. Meloni ha così messo ancora un po’ di pepe sulla coda di Salvini “pacifista” e su quella di Forza Italia il cui leader vanta un’amicizia personale con Putin. Il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè (Fi) ha ricordato comunque come “i governi Conte 1 e 2 hanno aumentato la spesa militare da 21 a 25 miliardi l’anno pur con il Pil in calo e senza una guerra in corso come oggi”. Il deputato di Italia viva Michele Anzaldi ha bollato i ricatti di Conte come “sceneggiate mediatiche” e una “presa in giro per i cittadini”. Il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari ha detto che “cercare di differenziarsi su un tema come la guerra e sulla posizione che l’Italia sta tenendo a livello internazionale, dà una pessima immagine alle forze politiche che cavalcano queste ipotetiche divisioni”.

Il modo per raffreddare le fibrillazioni è stato il tema del vertice di maggioranza di ieri sera. Nell’immediato la riunione dovrebbe portare ad un ordine del giorno condiviso da tutta la maggioranza che supererà quello di Fratelli d’Italia ed eviterà rischi di divisione. Palazzo Chigi infatti ieri sera non ipotizzava più di mettere la fiducia sul decreto Ucraina (che preclude gli ordini del giorno). In questo nuovo odg saranno decisive le parole. Del resto lo stesso Conte ha messo le mani avanti dicendo di “non volere la crisi e di non aver mai messo in dubbio gli accordi del 2014”. La mediazione quindi sta in “scadenze più dilazionate” e sul concetto di “ammodernamento tecnologico”. Il resto poi dovrò farlo il Def. Tutto dipende, infatti, come il Mef e palazzo Chigi scriveranno il Documento di economia e finanza che sarà presentato in settimana con i dati macroeconomici del 2022 e che dovrà tener conto del rallentamento del Pil che il mix di guerra, inflazione e caro energia fissa intorno allo 0,7% (+3% di pil contro il 4 previsto). Conte dovrebbe accontentarsi di un “incremento graduale e dilazionato della spesa”. Se oggi la spesa militare in Italia è pari all’1,4% del Pil, il due per cento potrà essere raggiunto per step e non certo in un colpo solo. Parliamo di un 0,2% nel 2022. Il resto nei prossimi due anni. Due-tre miliardi per non perdere la faccia in Europa e nella Nato. E coltivare la nostra già non così rispettata affidabilità internazionale.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.