Una telefonata durata un minuto, solo un minuto. Fu questa secondo fonti autorevoli la reazione durissima e gelida che gli Stati Uniti ebbero poche ore dopo l’avvio della missione russa a Roma nel marzo 2020. Quell’incredibile passerella che il governo Conte, in versione giallo-rossa, permise al regime putiniano è ancora una pagina da scrivere nella storia della diplomazia.
La notte del 22 marzo 2020 avvenne qualcosa di pericolosamente straordinario che potrebbe spiegare perché Lorenzo Guerini, attuale ministro della Difesa, è diventato un target della disinformazione del Cremlino. Sarebbe stato lui il primo a pagare lo scotto di quel filo diretto tra Conte e Putin. Il primo a pagare per il via libera alla parata militare che i blindati russi inscenarono per 700 chilometri da Roma a Bergamo lungo l’autostrada del Sole. Il primo su cui gli alleati puntarono il dito. Poche ore dopo l’arrivo del contingente russo per l’emergenza Covid, secondo quanto raccolto dal Riformista, avvenne il primo contatto diretto con Washington, una telefonata tra il ministro e l’allora capo del Pentagono Mike Pompeo. Il primo risultato di quella telefonata, definita “gelida”, fu il dimezzamento della missione russa: dovevano arrivare 18 aerei quella sera, ne atterrarono la metà.
Ma il colloquio viene seccamente smentito dall’ufficio stampa del ministero della Difesa. Che sentito sul punto fa sapere che «è totalmente falsa la circostanza di una presunta telefonata tra il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il Ministro Guerini non ha mai avuto contatti telefonici né con Pompeo, con cui non ha mai parlato, né con nessun altro esponente del governo statunitense che avesse come oggetto il tema degli aiuti all’Italia provenienti dalla Russia, legati al sostegno per la pandemia da covid».
Certo è che a Pratica di Mare quella sera Conte (che ieri in un’intervista ha tenuto a dire che dietro quell’operazione non c’era spionaggio) non è presente, c’è invece Di Maio, c’è il capo di stato maggiore Enzo Vecciarelli: una copertura massima sia a livello politico che militare. Quelli che stanno sbarcando non sono solo aiuti umanitari per il Covid ma una missione militare. Dentro gli aerei cargo c’erano più soldati che medici, più mezzi militari che materiale sanitario. Chi era su quella pista avverte chiaramente cosa sta avvenendo. “Qualcuno ci sta usando come chaffeur, come badanti”, raccontano fonti dello Stato Maggiore. Il primo arrivo è delle 21.25. L’Italia è in lockdown da una settimana.
A sovraintendere le operazioni c’è il numero uno delle Dogane, Marcello Minenna. È lui ad aver in mano la lista degli aiuti di Mosca, una lista ancora oggi top secret. Alcuni parlamentari la richiesero a Minenna ma la risposta fu un secco niet. Ma ci sono altri particolari che fanno pensare che quella andata in scena a Pratica di Mare fosse un’operazione di intelligence mascherata dall’invio di aiuti contro il covid. A partire dalla scelta del luogo. Perché fare atterrare il convoglio aereo a Roma invece che a Bergamo dove era diretto a distanza di 700 chilometri? Il motivo, ci spiegano oggi fonti militari, è semplice: Pratica di Mare è una base dell’Aeronautica e ci si aspettava che non vi fossero controlli doganali che tutto fosse “militarizzato” e quindi “secretato”.
Lo confermano due dati: il primo è la reazione stizzita e di grande nervosismo dell’ambasciatore russo Serghey Razov quando i funzionari della dogana chiedono la lista di tutto il materiale contenuto nei giganteschi cargo Ilyushin. “Ci sono accordi, non c’è bisogno”, ripete l’ambasciatore sulla pista. Secondo dato: nella lista del materiale, scritta rigorosamente a mano in cirillico e senza nessun timbro ufficiale, non c’era una sola mascherina. C’era però uno strano furgone che attirò molte attenzioni. Un Van, un furgone color crema senza finestrini: «Chiedemmo di aprirlo – ricorda oggi uno degli addetti alla pista- ma i russi si rifiutarono. Di certo all’interno c’erano apparecchiature elettroniche non mediche».
«È per il collegamento televisivo…» fu la risposta data ai doganieri. Ma il mezzo non aveva nessuna parabola sul tetto e la scritta in cirillico nella lista lo identificava come “unità mobile informativa”. Il punto indica però un’abbreviazione. Quindi la traduzione potrebbe essere anche questa, “unità mobile di intelligence”. La colonna dei mezzi militari russi inizia la salita verso il nord Italia. Sono le ore 9 del mattino del 23 marzo.
Al Pentagono, informato da protocolli Nato ma non da Palazzo Chigi, alcuni funzionari vedono in diretta sulla tv di Stato Russia 24 i mezzi militari russi imboccare l’autostrada del Sole direzione Bergamo. Mosca inonda il sistema informativo con una narrazione affilata: l’Ue non aiuta l’Italia, la Polonia ha negato lo spazio aereo per i nostri aiuti. Gli obiettivi sono squadernati. Le immagini fanno il giro del mondo. Alla fine di un veloce briefing gestito dal Capo di Stato Maggiore e alla presenza di alte personalità di governo il calcolo del costo del primo ponte aereo con Mosca produce una cifra di circa 700mila euro. Il briefing si scioglie con un alto ufficiale che pone la questione, “forse era meglio pagarli questi aiuti”.
Tre giorni dopo il titolare della Difesa promuove un’operazione diplomatica per ristabilire i rapporti.
Il ponte aereo con Roma faceva parte di una larga manovra diplomatica con un preciso obiettivo: chiedere la fine delle sanzioni utilizzando l’emergenza del covid. La Russia era impegnata all’Onu per cancellare le sanzioni dopo l’annessione del Donbass mentre l’ambasciatore russo Razov, presente sulla pista di Pratica di Mare, scrive una lettera a Vito Petrocelli a capo della commissione Esteri del Senato. E si torna di nuovo lì, all’Ucraina, alle sanzioni, alle operazioni militari mascherate da diplomazia, alla disinformazione. Quello che non è riuscito ad ottenere con questi metodi oggi Putin lo pretende con le armi.