Ucraina, tra guerra e negoziati. Il Riformista ne discute con il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, e prim’ancora dell’Aeronautica militare, consigliere scientifico dello Iai (Istituto affari internazionali). Camporini è tra i fondatori di Azione di cui è responsabile difesa e sicurezza.

La guerra d’Ucraina è entrata nel suo ventunesimo giorno. Che significato dare a questa durata?
Significa che la resistenza che l’esercito ucraino e il popolo ucraino stanno opponendo all’invasione da parte delle truppe russe, è un qualche cosa che non si supera grazie alla superiorità numerica o alla potenza di fuoco e che lo spirito nazionale è ancora un fattore fondamentale nell’equazione della forza. Sul terreno, c’è uno stato di avanzata russa che trova una resistenza molto forte tanto che i russi si occupano delle città, ma si guardano bene dall’entrare nelle campagne perché finirebbero nelle imboscate e troverebbero la gente armata dei missili anticarro di tipo Strike che mettono in seria difficoltà le armate corazzate che a loro volta non sfruttano abbastanza il rapporto sinergico con la fanteria. Questo non lo vediamo, quindi qualche problema di gestione tattica c’è, forse dovuto all’impiego di un certo numero di ragazzi di leva che non hanno avuto il tempo di essere addestrati a questo tipo di tattiche sofisticate.

Per restare sul piano strettamente militare. C’è chi parla di “confusione” ai vertici dell’Esercito russo e al Cremlino. È così?
Indubbiamente l’uso di armamento generico, missili e bombe non guidate sulle città è segno di un’incapacità di procedere dal punto di vista tattico. Qualcuno si è spinto a dire che Putin sta attirando in trappola l’Occidente facendogli vedere che è debole militarmente in modo tale da conservarsi le forze veramente capaci per un’eventuale futura avanzata verso l’Occidente. Considero questa ipotesi totalmente assurda, però l’ho riportata perché è sorprendente la scarsa combattività di queste forze che subiscono un sacco di perdite e non riescono a conseguire gli obiettivi militari.

Secondo quanto anticipato mercoledì dal Financial Times, per ottenere la ritirata dei russi Kiev dovrebbe esplicitamente rinunciare ad un suo ingresso nella Nato, rivedere la composizione delle sue Forze armate e rinunciare a ospitare basi militari o armi in cambio di protezione da Paesi stranieri. Kiev potrebbe accettare queste richieste russe?
Diciamo che quel piano di 15 punti di cui ha parlato il Financial Times può essere una base negoziale su cui ricercare un accordo che va trovato a metà strada, non può essere un accordo a senso unico.

Tra i 15 punti ci sarebbe anche la rinuncia da parte del Governo ucraino alla Crimea e al Donbass.
Credo che questi siano punti molto delicati. Sono rinunce e accettazioni di stati di fatto che sono sicuramente critici. Io non ho idea di quanto spazio negoziale vogliono dare gli ucraini a queste due richieste. Richieste che peraltro sembrava che fossero quelle che hanno scatenato l’attacco russo. Ritengo che attorno a questo ruoterà il vero negoziato.

Perché, generale Camporini?
Perché la questione dell’adesione dell’Ucraina alla Nato non era più in agenda dal 2014, anzi forse dal 2008. Non è un qualche cosa che avesse una possibilità di concretizzarsi. Quindi il negoziato si concentrerà sullo stato giuridico del Donbass, sicuramente, e anche sulla questione della Crimea che, è bene sottolinearlo, non coinvolge soltanto l’Ucraina, ma tutta la comunità internazionale, in quanto quello che è accaduto è una modifica dei confini nazionali ottenuta con la forza. Cosa che la comunità internazionale, le Nazioni Unite, ed anche il sentire comune della gente per la strada, non può accettare. Perché vorrebbe dire accettare la legge della giungla, l’uso della forza.

Insomma, c’è il rischio di creare un pericoloso precedente…
Più che un rischio direi che è una quasi certezza. Per restare sulla vicenda ucraina. Noi siamo portati, sull’onda degli avvenimenti di guerra, a concentrarci sul Donbass. Vorrei che tenessimo a mente che abbiamo situazioni simili a quella del Donbass…

Vale a dire?
Penso alla Transitria: nel momento in cui si cede su quello è naturale per Mosca rivendicare quell’altro, e poi magari le ex repubbliche sovietiche che fanno parte dell’Europa. Rischiamo un devastante effetto valanga.

Lo chiedo al generale ma anche al dirigente di Azione. Rispetto a quello che si è determinato in queste tre settimane, ha senso, nel dibattito politico in Italia, una divisione tra “interventisti” e “pacifisti”?
Il pacifismo è una cosa molto complessa. Non basta dire voglio la pace. Non basta dire rinuncio all’uso della forza. La pace può essere articolata in molti modi. E io sono tra coloro che cercano la pace giusta. Un tempo si parlava di “guerra giusta” – Sant’Agostino, Grozio e quant’altro – io invece voglio parlare di pace giusta. Come disse Zafón (il grande scrittore catalano prematuramente scomparso, ndr), parlando della fine della Guerra civile in Spagna “e quando venne la pace, fu la pace del camposanto”. E io non voglio la pace del camposanto. Io voglio la pace in cui la gente possa crescere i propri figli, godersi le piccole gioie della vita.

Ragionando su questo. Qui da noi, si è molto discusso e si continua a polemizzare sulla decisione del Governo, supportata dal Parlamento con un ampissimo consenso trasversale, di fornire all’Ucraina equipaggiamenti militari. Lei come la vede in proposito?
Io osservo che da un paio di giorni si possono avvertire da parte russa, atteggiamenti volti a trovare un accordo. Ancora timidi ma sicuramente con toni diversi da quelli dei primi giorni dell’offensiva militare. Se questo sta avvenendo, è dovuto alla capacità di resistenza degli ucraini. Quindi io credo che aver fornito e fornire questi sistemi d’arma, che sono sistemi assolutamente difensivi, all’Ucraina, può facilitare il raggiungimento di un compromesso. Perché fa capire alle due parti in causa, ma sicuramente alla parte russa, che la soluzione militare non è una soluzione.

Lei che è stato anche Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, ci spiega perché la richiesta di Zelensky di una no-fly zone, non è accettabile e praticabile da parte della Nato?
Perché comporterebbe uno scontro militare diretto tra unità aeree della Nato e unità aeree russe, il che costituirebbe un passo avanti nell’escalation che nessuno si può permettere.

Le definizioni sono sostanza, soprattutto quando si parla di strategie militari. Putin non usa mai, in riferimento a ciò che sta avvenendo, la parola “guerra”. Ma noi come dovremmo correttamente definire gli accadimenti che da tre settimane insanguinano l’Ucraina?
È un’aggressione, con l’uso delle forze armate, di un Paese sovrano. Se questa non è guerra, qualcuno mi deve spiegare che cos’è.

Guardando il tutto dall’osservatorio europeo, questa drammatica vicenda è anche un banco di prova per la tenuta dell’Europa. Le chiedo: l’Europa sta superando questo esame?
Diciamo che ci sono segnali molto positivi. Ci sono atteggiamenti sicuramente molto più indirizzati ad una risposta comune, una risposta solida, e accanto a questi segnali ne abbiamo altri di qualche Paese, qualche Stato membro, che vorrebbe fare dei passi diversi, in avanti. Sto pensando alle cose che sta proponendo la Polonia e qualcun altro. Il che è naturale nell’ambito di una istituzione così vasta e sfaccettata come l’Unione Europea, ma certo è che Putin potrebbe passare alla storia come colui che ha dato una spinta determinante per una integrazione più stretta dei Paesi dell’Unione.

Si può affermare, come qualcuno ha scritto, che comunque vada a finire questa storia, c’è comunque un vincitore: la Cina?
La Cina può trarre qualche vantaggio da questa storia. Se poi sarà lei la vincitrice o colei che trarrà il maggiore guadagno da questa vicenda, lo vedremo. È indubbio che se la situazione di belligeranza continuerà, ci sarà un danno significativo per l’economia cinese, che vede rallentati i flussi commerciali e quelli di materie prime, in primis quelle energetiche, di cui ha bisogno. È un interesse precipuo della Cina quello che la cosa si risolva al più presto, perché l’economia cinese ha bisogno di un mondo senza turbamenti dovuti a vicende come quella ucraina.

La durata di questo conflitto riguarda anche le nostre tasche. Il presidente Draghi ha parlato di economia di guerra. Ma l’Italia ha la forza per reggere questa situazione, alla lunga?
Questo è un cercare di guardare il futuro. Io osservo che storicamente abbiamo l’evidenza che i popoli spesso hanno delle capacità di sopportazione superiori a quelle che gli venivano attribuite all’inizio. Questa è un’osservazione di carattere generale. Io credo che sta emergendo la consapevolezza che se questi problemi vengono affrontati con i giusti strumenti, il domani sarà migliore. Faccio un esempio: Ursula von der Leyen ha dichiarato che nel 2027 l’Europa dovrà raggiungere la sua autonomia energetica per non essere più strangolata da un singolo Paese, come sta cercando di fare la Russia. Una prospettiva del genere, a mio avviso, è una prospettiva che mette l’Europa in una condizione di poter decidere, senza essere ricattata, sul suo futuro, per quello che accadrà un domani. E questo è un messaggio che deve essere fatto passare dai nostri media, a tutta la popolazione europea, quella italiana ovviamente.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.