Una risposta alle accuse
La resa non è complicità con Putin ma resistenza per salvare vite umane

Non Machiavelli, visti i tempi, ma il generale Carl von Clausewitz. Era il 1808 quando l’ufficiale prussiano scriveva il più celebre e abusato dei suoi aforismi: «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. la guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica». Aria fritta, visti i tempi, in cui la guerra non sembra altro che scoppi di bombe, clangore di corazze, sangue e pianti. Prevalgono, in questi giorni di lutto, primordiali pulsioni guerresche; le immagini di aerei abbattuti e tank russi in fiamme esaltano i “resistenti” da salotto, quelli che plaudono all’invio di armi per i combattenti ucraini e discettano amenamente del diritto alla resistenza a spese della fuga di milioni di persone e dei cadaveri di migliaia di inermi. Ci sono persino quelli che si sono emozionati davanti alla foto di una bambina con il fucile in braccio che volge lo sguardo lontano quasi non stesse guardando l’abisso della guerra, quasi che non avesse solo nove anni.
Putin sta commettendo crimini orrendi. Se la Corte penale internazionale – nata a Roma nel 1998 – fosse una cosa seria – non lo è anche per colpa degli Usa che hanno sottratto i propri militari alla sua giurisdizione con un pulviscolo di accordi bilaterali – a Putin si dovrebbe applicare l’articolo 8 bis dello Statuto di Roma che, dal 2010, punisce il “crimine di aggressione”. A beneficio di quelli che non studiano, ma pur discettano di guerra, si deve ricordare che la norma definisce “crimine di aggressione” la pianificazione, la preparazione, l’inizio o l’esecuzione, da parte di una persona in grado di esercitare effettivamente il controllo o di dirigere l’azione politica o militare di uno Stato, di un atto di aggressione che per carattere, gravità e portata costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni unite. E lo stesso articolo subito dopo chiarisce che “per atto di aggressione” si intende l’uso della forza armata da parte di uno stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni unite; il tutto indipendentemente dall’esistenza di una dichiarazione di guerra.
Roba da Corte penale internazionale o da Tribunale ad hoc, per intendersi e per intendere anche quale sia l’unica parte da cui è lecito stare in questa guerra. Il fronte interno dei putiniani in Italia verrà ineluttabilmente allo scoperto a guerra finita, quando il solito gruppuscolo di fanatici del diritto umanitario, la solita enclave di oltranzisti della legalità internazionale starà a invocare un processo per l’autocrate russo che nessuno vorrà. Allora, vedrete che tutti i ruggenti fautori della resistenza del popolo ucraino vestiranno i panni della realpolitik e della moderazione, mettendo da parte l’idea di qualsiasi tribunale. Punto e a capo. È abbastanza sorprendente il dibattito che si è aperto sulla resa dell’Ucraina che ha anche assunto toni in parte inaspettati. La tesi di chi è favorevole a una dichiarazione di resa dell’Ucraina prima della totale sconfitta militare ha una sua lineare semplicità: non si può condurre un popolo al massacro e all’esilio se le speranze di vittoria sono nulle.
Tutti i più autorevoli analisti sono d’accordo nel ritenere che Putin non può perdere questa guerra e che per vincere è disposto a qualunque gesto efferato. Il tutto senza che l’Europa e la Nato possano muovere un dito, se non fornire armi assolutamente insufficienti per una vittoria. È chiaro che, non potendo salvare la democrazia ucraina, l’Occidente tranquillizza le pubbliche opinioni mantenendo in vita una resistenza disperata, destinata ad annegare in un irragionevole bagno di sangue. Certo intriga la prospettiva di eliminare dalla scena lo zar di Mosca con le mani sporche per sempre di sangue innocente. Tuttavia, proprio perché la guerra è un atto politico e la politica è innanzitutto un esercizio di razionalità, i conti non tornano. Ieri l’ambasciatore Sergio Romano ha, con il suo grande prestigio, indicato la via inevitabile della neutralità dell’Ucraina come l’unica soluzione per deporre le armi. Può piacere o meno, ma certo non si può tacciare Sergio Romano di essere filo-putiniano quando razionalizza le sorti della guerra in atto.
Una neutralità imposta lede l’indipendenza di una nazione è vero, ma Sergio Romano ha speso parole di fuoco sulle conseguenze nefaste dell’allargamento a Est dell’Unione Europea; un’espansione interamente voluta dalla Germania per ampliare la propria sfera di influenza e i suoi commerci, e oggi foriera di mille problemi tra Romania, Polonia e Ungheria. Il cedere le armi è un atto politico al pari della guerra, non il segno di un crollo morale o di una melliflua codardia. La nonviolenza non equivale a pacifismo. È anch’essa forza, ma deprivata della sua componente di aggressione e di mutilazione delle vite. La nonviolenza è una forma di tenace e irriducibile resistenza. Con essa Gandhi ha piegato un impero non meno aduso alla forza e ha costruito una nazione.
L’occupazione dell’Ucraina – forse di una frazione di essa – da parte degli invasori dovrebbe avere di fronte un popolo inerte, ma non inerme per la sconfitta. Un popolo non disposto ad alcuna forma di collaborazione con l’occupante, resistente a qualunque lusinga e indisponibile a qualunque patto con l’aggressore. Escluse scuole e ospedali occorrerebbe consegnare ai russi un paese “inutile”, una scatola vuota. Un paese sostenuto dalla comunità internazionale nei suoi bisogni primari, munito di tutto quanto occorre a una nazione per sopravvivere in condizioni dignitose, ma non disposto a stringere una mano o a sedersi a un tavolo fino a che il tallone del nemico gli schiaccia il collo. È singolare che coloro i quali polemizzano sulle politiche migratorie fondate sull’ “aiutiamoli a casa loro” oggi si esaltino all’idea dell’invio di armi al popolo ucraino chiudendo gli occhi sulle conseguenze nefaste di questo approccio. Questa guerra, dicono in molti, è destinata a cambiare il mondo nei tempi che verranno.
Probabilmente è vero. Ma rappresenta anche una straordinaria occasione per rielaborare forme di intervento e di assistenza internazionale in favore dei popoli aggrediti che non si riducano al piazzare armamenti e piantare croci nei cimiteri e nelle fosse comuni. Deporre le armi di fronte all’eccidio e alla distruzione di città non è riconoscere le ragioni del nemico, ma è piuttosto il tentativo di inchiodarlo alle responsabilità della pace. Per i russi sarà più facile controllare un deserto reso inerme dalla distruzione che soggiogare un popolo solo inerte che, ancora vitale, dismette le armi e abbraccia una lunga resistenza passiva con il sostegno delle nazioni libere.
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