Ci sono frasi che galleggiano nella memoria. Libri, articoli, conversazioni, film compongono un mosaico di immagini, di ricordi. Evocano, suggeriscono, provocano. Nello scorrere delle immagini che documentano da giorni l’esodo tremendo e immane di milioni di ucraini verso la frontiera polacca o i bombardamenti delle città, la mente vorrebbe staccare, volgere altrove il proprio sguardo. Poi una frase inchioda la riflessione. Non importa che venga da una celebrata opera letteraria o da una pellicola hollywoodiana di successo, le parole restano lì sospese e rivendicano un’attenzione.

I primi minuti del Gladiatore hanno stupefatto e suggestionato milioni di spettatori in tutto il mondo. L’esercito romano schierato vede lanciarsi in battaglia le tribù germaniche destinate al sacrificio e alla morte, il centurione Quinto si rivolge al proprio generale: «Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto» e Massimo di rimando: «Tu lo capiresti Quinto? Io lo capirei?». È un dialogo banale, forse. A cercare da Dante a Dostoevskij si troverebbe di molto meglio. Forse bisognerebbe sfogliare le pagine di Hans Magnus Enzensberger (Il perdente radicale, trad. it. 2007) per cogliere la sindrome dello sconfitto che non prende atto della propria condizione e ostinatamente non abbandona la lotta. Non rassegnarsi alla sconfitta come i giapponesi nelle isole del Pacifico nel 1945 o i ragazzi tedeschi tra le macerie di Berlino intorno al bunker di Hitler. C’è una patologia in colui che non si arrende e in modo irriducibile prosegue la battaglia sino all’epilogo. La nostra cultura (il mito di Ettore ucciso sotto le mura di Troia) ha sviluppato da millenni il culto dell’eroe destinato al sacrificio, di colui che si immola nella perfetta consapevolezza della sconfitta e che pur non recede. E, oggi, guarda con ammirazione e simpatia al presidente ucraino Zelensky in cui scorge i tratti dell’eroe perdente. La sua risposta all’idea degli Usa di portarlo in salvo lontano da Kiev resta da annotare tra quelle simboliche e forse memorabili: «ho chiesto armi, non ho bisogno di un passaggio». Eppure, eppure.

Quinto evoca la sconfitta di un popolo, ne immagina una coscienza collettiva, Massimo nella sua dimensione individualistica rapporta ciò che accade solo a se stesso e al suo commilitone. Un popolo e un eroe. Tutti sanno che l’Ucraina è sconfitta militarmente. Tutti sanno che lo era un minuto dopo l’inizio dell’aggressione. Tutti sanno che la resistenza e l’invio di armi dall’Occidente non ha e non avrà alcun risultato se non quello di provocare altre migliaia di vittime, fino a quando l’Orso russo non avrà sferrato la sua ultima, rabbiosa e mortale, zampata. Siamo finiti nella trappola emotiva dell’eroe perdente. Come i troiani affacciati dalle mura di Ilio contempliamo la spianata ucraina e attendiamo che Achille faccia strame del corpo di Ettore. Sapendo sin dall’inizio come andrà a finire. Non è una trappola mediatica né causale né ingiustificata. Le stragi del popolo ucraino retrocedono Putin al rango di un autocrate sanguinario e ne distruggono per sempre la reputazione agli occhi dell’Occidente. Il sangue che scorre purifica la cattiva coscienza della Nato per la gestione complessiva dell’affaire ucraino.

Quell’Occidente ha colto subito l’opportunità della narrazione del mito di un eroe sconfitto da un gigante, di Golia che questa volta schiaccia Davide, e pretende di rivestirsi della pietas di colui che si inginocchia sul corpo di chi cade. Questo poco nobile atteggiamento esigerebbe parole chiare. Un popolo non può essere mandato al massacro e all’esodo sol perché un uomo, o una élite ha deciso che la resistenza sino all’eccidio sia la strada migliore, quella che consegna alla storia o anche solo alla misericordia dei vicini o alla speranza di una vendetta. La guerra è la più complessa delle dimensioni della politica e la politica non prevede l’autoannientamento del proprio popolo, se non in visioni demoniache. La resa è un dovere, quando a pagare il prezzo di una lotta senza speranza sono i più fragili e gli ultimi. Kiev non è Stalingrado.

L’Ucraina non dispone delle industrie belliche di Stalin spostate a Est e non ha milioni di soldati da lanciare nella lotta né alleati disposti a sbarcare in Normandia. È un paese praticamente inerme che deve cedere alla violenza per preservare la propria sorte. Non esiste un popolo votato al sacrificio, non lo sono stati neppure gli ebrei della Shoah, e gli eroi non hanno il diritto di condurlo a morte. La resa è il sacrificio meno nobile, il gesto più vituperato, la scelta meno romantica, ma è il dovere di chi governa una nazione.