La guerra in Ucraina, se condotta fino in fondo e con un Putin che resta in sella, segnerà la separazione della Russia dall’Europa, che ancora negli ultimi anni non si intravedeva. E implicherà lo scivolamento sempre più netto della Russia stessa verso la Cina, cosa che era, almeno per certi aspetti, in discussione, e che formerà un blocco più forte, con proprie strategie geo-politiche, guidato dalla Cina. Ragione di più per non abbandonare il campo di guerra con la resa, ragione di più per mostrare quanto costi ciò che sta avvenendo. Ci saranno più morti? Più macerie? Più profughi? La storia umana, scriveva Hegel che pur ne vedeva la luce, ha anche il suo cono d’ombra, la definiva «un grande mattatoio» e basta voltarsi intorno o guardare al passato. E naturalmente c’è guerra e guerra.

E qui vorrei rispondere molto velocemente a chi invoca la resa degli ucraini. Non si può chiedere questo a nessun paese, Stato, nazione, che sia invaso da un altro più grande e più forte di lui. Un atto di automortificazione che annienta ogni volontà di indipendenza e di esistenza autonoma, ogni forma di vita scelta, un sottrarsi repentino alla storicità degli eventi, un abbandono della dignità alla pura prepotenza. L’Ucraina ha sempre vissuto di un forte sentimento nazionale, un assemblaggio di pezzi alcuni dei quali non hanno mai fatto parte dell’impero zarista, come ricorda Andrea Graziosi. Ed è vivo il ricordo della criminale politica agricola di Stalin che produsse, negli anni Trenta, milioni di morti. Ha appena assaporato che cosa significa vivere nella libertà. Non si può chiederne la resa anche perché i calcoli di Putin si stanno mostrando approssimativi e sbagliati, e la resa gli regalerebbe una vittoria in una guerra il cui esito è ancora sospeso, tra molte varianti.

La storia è colma di sanguinose resistenze che hanno salvato l’umanità, fino alle clamorose vicende del Novecento. Essa prevede queste cose nella loro dimensione vitale e tragica, non insegna che chi è più debole si arrenda a chi è più forte. E peraltro gli ucraini resistono, e dunque avvertono qualche ragione per farlo, una ragione che coinvolge popolo e classi dirigenti. La resistenza nella guerra e la fuga di milioni di donne e uomini ne è la prova disumana. Ma poi, è sicuro che Putin vince? Che significa ”vincere”? Forse Putin riuscirà ad occupare l’Ucraina, anche se la cosa è ormai in dubbio, ma la “vittoria” segnerà pure l’irrimediabile declino della Russia che ha vinto. Siamo alla vigilia del suo possibile fallimento economico. La Russia, che ha pure contribuito a fare la storia d’Europa, con la sua cultura, con la sua letteratura che ha scavato nella condizione umana e negli orrori del potere dispotico, oggi si avvita su sé stessa e cede il campo usurato al vecchio slavismo zarista che ha sempre contrastato la dimensione europea, e che ora resta solo in campo, senza le sue ragioni antiche e reprimendo contrasti oggi vivi. L’intera struttura del mondo entra in discussione, si fa sempre più incerta e caotica nelle sue prospettive.

I raggiunti equilibri, di cui la Russia era parte, si piegano davanti a una nuova realtà di cui è difficile delineare la fisionomia. Problemi politico-ideologici e problemi economici si mescolano, questioni di egemonia politico-culturale e questioni di commercio e finanza mondiale vanno in un calderone di difficile decifrazione, contraddicendo il carattere relativamente neutrale che si indicava come proprio della globalizzazione. Sul versante opposto, l’Occidente non sta in pace con stesso, non è più la compatta unità America-Europa, parla male di sé con le auto-distruttive culture della cancellazione, è ancora Occidente, ma come disperso. Molto dipenderà dalla sua capacità di ritrovare le ragioni della propria esistenza e del proprio ruolo, sia nella difesa delle società aperte sia nella sua capacità di contribuire a governare la nuova struttura del mondo che si va disegnando. Dopo la fine della guerra in Ucraina, l’Occidente non potrà essere lo stesso di prima, una America che si divide e declina, e una Europa che non sa che cosa è, dove si pongono i confini della sua identità e la potenza del suo fare politica.

La ragione a me pare evidente: in crisi quella che si immaginava la neutralità della globalizzazione, l’Occidente non può più affidarsi a quella grande astrazione reale che è lo sviluppo della rivoluzione tecnologica, utilissima alla “neutralità” e alla sua funzione. Deve prendere posizione politica, prender parte, deve avere una idea di sé e una democrazia che funzioni. Il documento comune russo-cinese del 4 febbraio, nel quale si dice all’Occidente “la tua democrazia liberale è in agonia”, ha delle ragioni serie dalla sua parte. E lascia intravedere l’idea che le vere “democrazie” oggi stanno nelle loro terre, nei loro poteri capaci di decisione. Il problema dell’Occidente è prender coscienza della propria crisi e rispondere adeguatamente con gli anticorpi che possiede, con gli archivi pieni di idee che custodisce, con una nuova volontà di vita adeguata al mondo che cambia. La guerra d’Ucraina sta creando scenari nuovi, sta accelerando quella crisi del mondo globale che maturava lentamente e che si intravedeva già da tempo. La partita in corso è decisiva, ben oltre i confini di un paese tragicamente coinvolto in una guerra di aggressione.