Agli albori, in materia di giustizia, la sinistra tifava per l’avvocatura, la più nobile delle professioni liberali. Molto spesso erano avvocati i primi e più importanti dirigenti del movimento dei lavoratori, a partire da Filippo Turati. Da allora, anche in epoche meno lontane, si trattasse di sostenere operai che occupavano fabbriche o studenti che facevano manifestazioni, c’era sempre un avvocato (dal latino ad-vocatus, chiamato in aiuto) pronto a combattere contro i soprusi del potere, per ergersi a protagonista acclamato di vibranti arringhe nelle aule di giustizia, in difesa dei diritti di ogni singolo individuo. Mentre la magistratura era per definizione un potere odioso e lontano, che presidiava in maniera occhiuta – a volte ottusa – le leggi vigenti, l’impianto istituzionale dato, la tutela dell’ordine costituito.

Accadde qualcosa di imprevisto, ma di sostanziale, a seguito del cambio epocale della fine degli anni ’60. Avendo preso rapidamente atto che la rivoluzione per via politica era una strada impraticabile e illusoria, nelle nuove generazioni si cominciò a pensare che bisognava penetrare nei gangli cruciali del sistema, per scardinarlo da dentro. E il “fare giustizia” (non parlo ovviamente delle orribili minoranze combattenti) diventò una parola d’ordine – e un percorso di carriera – per molti ragazzi imbevuti di ideologia, animati dalla sincera voglia di cambiare, meno consapevoli di quei principi sacri della separazione dei poteri che sono a fondamento dello Stato di diritto, e lo tengono da alcuni secoli in equilibrio.

Fu questo il corto circuito che portò alla “rivoluzione dei giudici” dei primi anni ‘90, alla conseguente alterazione strutturale dei rapporti tra i poteri e all’uso da allora permanente della giustizia come un grimaldello, non per “amministrare la legge”, ma per brandirla, per piegarla alle proprie convinzioni. Fino all’approdo ultimo, esibito con candore nella Carta dei valori dell’Area democratica per la Giustizia (che non è una componente del Pd, ma l’ormai nota corrente di sinistra dei magistrati italiani), che intende battersi per “l’interpretazione… come strumento essenziale… di promozione sostanziale dell’eguaglianza tra le persone”. Un programma che più eminentemente politico non si potrebbe, a quanto pare condiviso dalla premiata coppia Schlein e Conte.

Ed è così che la sinistra del terzo millennio archivia definitivamente il suo glorioso percorso, iniziato con veri “avvocati del popolo” che difendevano braccianti sfruttati, e si chiude con una grottesca genuflessione nei confronti dei nuovi potenti, quelli che invocano ogni giorno “resistenza” solo per tutelare i loro eterni privilegi corporativi e di casta. Chissà cosa ne penserebbe il povero Filippo Turati.