“Presidentissimo”, un’iperbole che adesso con cui tutti lo ricordano ha segnato la lunga avventura nel calcio di Giampiero Boniperti, morto a 93 anni, un legame indissolubile con la Juventus, al tempo in cui la carriera di un giocatore poteva diventare un’appartenenza totale e una fede. A Torino era arrivato a 17 anni, per giocare nella Gobba, con Benito Lorenzi che lo prendeva in giro per i boccoli biondi. Vince cinque scudetti, segna caterve di gol (178) ed entra nel mito del Trio Magico con Sivori e Charles, ormai centravanti che arretra al punto che Gianni Brera conia per lui il ruolo e il titolo di “centro-campista”.

Fino al 1961, quando a 33 anni si ritira, e dopo un apprendistato dirigenziale diventa Presidente, all’ombra di Gianni Agnelli, per vent’anni, dal ‘71 al ’90, con una coda di altri quattro anni come amministratore delegato e una bacheca che si riempie di 9 scudetti, 2 Coppe Italia, una Coppa Intercontinentale, una Coppa dei Campioni, l’era del Trap e di Scirea, Cabrini, Gentile, Tardelli, Causio, Rossi… che nell’82 avrebbero innervato la Nazionale Mundial di Bearzot. Numeri e titoli che però da soli non bastano a dire chi sia stato Giampiero Boniperti, cosa abbia rappresentato non solo per la Juventus ma per il calcio italiano. Per capirlo bisogna tornare al mezzo secolo del Novecento in cui il Pallone passa da una sorta di professionismo artigianale a un’età proto-marketing che fa intravedere un business, almeno per gli happy few, globale.

Boniperti comincia con le squadre padre-padrone dei cartellini, i campi spesso sterrati, la televisione che non c’era e poi avrebbe trasmesso solo un tempo la domenica sera, le maglie che erano solo il colore del tifo, non profanate dalla pubblicità. E conclude il cammino da artefice dell’organizzazione e dell’immagine della Juventus. Le dà una solidità, una continuità e uno stile che la consegna al futuro e, al tempo stesso, impersona un modello che per l’ultima volta tenta di mantenere un equilibrio tra mercato e valori, fra soldi e appartenenza, fra immagine e sostanza. Quell’equilibrio che il calcio avrebbe perso in questi anni Duemila, lanciato com’è sulle tangenti dei contratti ipermilionari, delle percentuali degli agenti e soprattutto del valore di scambio televisivo, in un circuito finanziario in cui l’analogico del gioco, se è ancora presidiato dai tifosi, rischia una deriva senza ritorno.

“Stile”, abbiamo detto, Boniperti lo ha esibito sul campo di gioco e poi ne ha fatto un’insegna di comportamento e d’immagine per la Juventus. Ha respirato l’aria piemontese-sabauda e per il calcio ha rappresentato un mix tra Montessori e Cuore di De Amicis, pedagogia e un ferreo galateo della disciplina, capelli tagliati e pochi grilli per la testa, avendo alle spalle il Re, anche lui regale e immaginifico gestore di un parallelo tramonto, quello di un intero modello industriale. Uno stile che non valeva per se stesso, ma era considerato il presupposto essenziale per raggiungere l’obiettivo per cui si contende su un campo, vincere, “L’unica cosa che conta”, amava ripetere. Senza esitazioni, dubbi, trasgressioni o deviazioni dal binario di un’applicazione e dedizione feroce.

Quella che la Juve oggi continua a esibire, forse con una voracità che a volte le fa rischiare la protervia. I giocatori lo ricordano con commosso rispetto e raccontano di una carattere freddo, determinato, prendere-o-lasciare, lo sguardo che guardava dentro, fino al cuore, già il cuore: “La Juve non è soltanto la squadra del mio cuore, è il mio cuore”.
La retorica è sempre in agguato, ma è difficile pensare che per Boniperti quel codice fosse solo una messa in scena o un atteggiamento. Una volta, mi accadde di incontrarlo nel vecchio stadio Comunale di Torino, ne avvertii la gentile fermezza, l’amore per uno sport che si era identificato con una vita e che, semper fidelis, forse non riconosceva più.