All’alba del 17 giugno di 41 anni fa l’arresto in favore di telecamere, debitamente preavvertite, del più popolare presentatore televisivo dell’epoca (anche 20 milioni di ascoltatori per ogni puntata del suo Portobello), dava la stura al più clamoroso caso giudiziario della storia repubblicana. Nessuno chiami “errore giudiziario” l’arresto e la condanna in primo grado di Enzo Tortora. Non ci furono errori, come sa benissimo chi ha conosciuto e studiato gli atti di quell’incredibile processo. Nessun fraintendimento, nessun insospettabile sviamento.

La natura calunniosa delle accuse formulate nei suoi confronti da una strepitosa compagine di mitomani, psicopatici o grossolani approfittatori della ghiotta occasione per guadagnare “meriti” nel proprio trattamento carcerario, era troppo evidente, troppo “Grand Guignol”, troppo esagerata nei modi e nei contenuti per poter ingannare non dico esperti investigatori e magistrati, ma anche solo semplici persone dotate di buon senso e di basica esperienza sui comportamenti umani. Fu sistematica, abituale, implacabile la omissione di ogni, seppur minima, attività di riscontro investigativo ma prima ancora logico e di senso comune, di accuse di quella insensata enormità.

Le accuse insensate

Tortora affiliato della camorra; Tortora impantanato in implausibili cerimonie di affiliazione nel chiaroscuro di qualche basso partenopeo; Tortora incontrato, in un rutilante impazzimento spazio-temporale, a cena in quel castello di Ottaviano che Cutolo però acquisterà solo molti anni dopo; Tortora che scambia pacchi di droga nel buio di uno stanzino di una televisione lombarda, sorpreso da un pittore pregiudicato per calunnia e dalla sua consorte, ivi riparati perché a costei “si era rotto l’elastico delle mutande”; il numero di telefono di Tortora annotato nell’agendina della donna di un importante camorrista cutoliano ed immantinente visto, spiegato e comunque confermato come fatto notorio nell’ambiente -o perfino variamente interpretato come un codice segreto (!!) che ciascuno di questi disgraziati si industriava grottescamente a decodificare- da una pletora di pentiti pronti ad irrobustire quella decisiva “prova regina”, prima che la titolare dell’agendina, molte settimane dopo, venisse finalmente ascoltata e spiegasse che si trattava di Enzo Tortòna, commerciante casertano suo amico; Tortora abituale frequentatore di night in compagnia di Turatello; Tortora che si fotte bellamente chili di droga; “Tortora Enzo Claudio Marcello, fedelissimo su Milano”.

Nessun riscontro sulle improbabili puttanate

Nessuna attività di riscontro di questo fiume impazzito di imbarazzanti, insensate, sgangherate, improponibili puttanate: mai, mai, mai. Mai sin dall’inizio, neppure quando il super pentito Giovanni Pandico, camorrista di second’ordine, noto psicopatico e pregiudicato calunniatore, fa per la prima volta il nome di Enzo Tortora, dopo averlo ignorato nei suoi numerosi, precedenti interrogatori con nutriti elenchi di nominativi di “affiliati” (badate bene: solo qualche giorno prima, a Lecce, era stata rinvenuta la famosa agendina). Il 17 giugno Enzo viene preso al laccio nell’hotel Plaza di Roma, puramente e semplicemente su queste basi investigative, sorte esattamente nella dinamica che vi ho descritto. Non un pedinamento, non una verifica bancaria, non una intercettazione telefonica, niente di niente di niente.

Una storia di follia umana

Così, come se niente fosse, si impicca un galantuomo alle calunnie di due farabutti, e ad un nome e numero in una agendina verificati solo molte settimane dopo, senza nemmeno chiedersi: ma come mai solo ora, come mai in questo modo, un uomo di quella notorietà, di quella sterminata popolarità? Il processo infine accerterà le ragioni (psichiatriche) della calunnia di Pandico (offeso da una letteraccia con la quale Tortora replicava alle minacce di causa per danni contro la RAI perchè i centrini ad uncinetto inviati alla redazione di Portobello da un suo protetto erano andati dispersi): ma questa è storia di follia umana, come ce ne sono tante.

Nessuno ha mai pagato: tutti promossi

Il tema cruciale che la vicenda Tortora pone è ben altro, ed è ciò che la rende tragicamente e perennemente attuale, angosciosa parabola del potere giudiziario nel nostro Paese. Il tema è che nessuno ha mai pagato per uno sciagurato disastro del genere. Anzi, meglio: tutti i magistrati che ne furono protagonisti sono stati promossi con encomio a funzioni superiori e di grande prestigio. Uno addirittura eletto subito al CSM, hai visto mai dovesse essere utile. L’Associazione Nazionale Magistrati difese con le unghie e con i denti quello scempio (con la encomiabile eccezione di Magistratura Democratica). I due difensori di Enzo Tortora nella causa di risarcimento danni contro quei magistrati, due giovanissimi avvocati tra i quali il sottoscritto, subito denunciati ed a lungo indagati per una strabiliante, anzi direi oltraggiosa, ipotesi di calunnia.

“Noi siamo intoccabili”

Una manifestazione di forza, di arroganza, di assoluta impunità da parte di un potere che intese lanciare, a valle di quella vergogna, un segnale molto chiaro: noi siamo intoccabili, noi siamo incensurabili, nessuno osi pretendere di processarci, nemmeno per un simile, vergognoso, indifendibile scempio. Altro che errore giudiziario! Invece, la prova regina -questa sì- della ipertrofia antidemocratica di un potere dello Stato che, a differenza degli altri due, è del tutto irresponsabile dei propri atti, ed in ragione di tale irresponsabilità controlla e condiziona gli altri due. Leggete, su PQM, solo qualche assaggio di quello scempio, per comprendere fino in fondo quanto la vicenda Tortora, lungi dall’appartenere al passato, sia la tremenda, immutabile parabola del nostro presente. Buona lettura

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