Giancarlo Pittelli ha ricusato i suoi giudici. Due su tre, per la precisione, la presidente del tribunale Brigida Cavasino e una delle due laterali, Gilda Danila Romano. Non è il primo a farlo, e la cassazione e la corte d’appello a cascata sono state già abbastanza chiare al riguardo, le due magistrate non possono garantire l’imparzialità. Loro stesse hanno già ripetutamente richiesto di potersi astenere, ancora ieri in aula, ma il tribunale le tiene legate alla sedia. Benvenuti al “Rinascita Scott”, ormai diventato il processo che non c’è, quello in cui un imputato, l’avvocato Giancarlo Pittelli, che non è certo il più importante per la gravità del reato o per i fatti contestati, ma è ancora nel suo carcere casalingo, è accusato del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa.

Questo processo, è quello che avrebbe dovuto rendere il procuratore Gratteri pari per fama a Giovanni Falcone, quello che, in seguito al blitz del 19 dicembre 2019, tiene impegnati centinaia di imputati e almeno il doppio di avvocati e forze dell’ordine, in una mega dispendiosa aula bunker costruita appositamente a Lamezia e ormai perennemente semivuota. Con i giudici che cadono come birilli per le ricusazioni, mentre il procuratore Gratteri pare sempre impegnato altrove, a candidarsi, prima alla Direzione Nazionale Antimafia (e gli è andata male) e ora al vertice della procura di Napoli. Ma anche in qualche blitz di supporto, come l’ultimo nel cosentino, occasione di feroci polemiche con la ministra Cartabia, il premier Draghi e l’intero Parlamento, colpevole di aver approvato qualche timido provvedimento sulla presunzione di non colpevolezza. Cioè di un principio costituzionale, non di un piccolo colpo di Stato.

In questo clima quasi di abbandono, e di indifferenza nei confronti degli imputati e dei loro diritti, le due giudici incompatibili vengono strattonate e costrette a una presenza quasi solamente notarile, perché concretamente, come loro stesse sanno benissimo, non possono più giudicare una serie di imputati con la serenità dovuta e imposta anche dall’articolo 111 della Costituzione, che garantisce il giusto processo di fronte a un giudice imparziale. Perché le due non possono esserlo? Perché hanno già giudicato alcuni imputati in un processo connesso di nome “Nemea”. E perché la giurisprudenza sia della Corte Costituzionale che della Cassazione a sezioni riunite è molto chiara, soprattutto per quel che riguarda i reati “a concorso necessario”, sull’effetto trascinamento che ha la valutazione di un imputato anche sugli altri.

Il caso dell’avvocato Pittelli è chiarissimo, e gli argomenti usati dai difensori, gli avvocati Gian Domenico Caiazza (presidente dell’Unione Camere penali) e Salvatore Staiano, nell’istanza di ricusazione, molto approfonditi. La base di tutto è la recente ordinanza del 16 settembre della Corte d’appello di Catanzaro che, dopo il rinvio della cassazione, ha accolto l’istanza di ricusazione nei confronti delle due giudici avanzata dall’imputato Luigi Mancuso. Il quale, nella sentenza del processo “Nemea” nel cui collegio giudicante sedevano Brigida Cavasino e Gilda Danila Romano, era stato individuato come “soggetto apicale di una omonima cosca madre, operativa in tutta la provincia di Vibo Valentia”. Che cosa c’entra l’avvocato Pittelli con questa persona? C’entra moltissimo, perché la sua imputazione nasce proprio dal rapporto tra i due, che poi era quello tra difensore e assistito. Ma c’è di più. Nel provvedimento della Corte d’appello, viene ricordato come nell’imputazione di Luigi Mancuso viene esplicitato tra gli altri il suo fondamentale compito di “mantenere i rapporti con i colletti bianchi (professionisti, imprenditori, politici, appartenenti alla massoneria), quali Pittelli Giancarlo, di riferimento per la risoluzione dei problemi della organizzazione”.

Più chiaro di così, il legame processuale. Pittelli nel suo capo d’imputazione è accusato proprio di aver mantenuto costantemente rapporti con il capo di un’organizzazione mafiosa –definito tale proprio come ha scritto la sentenza “Nemea”– in un rapporto definito come “sinallagmatico”, cioè quello che determina obbligazioni tra le parti, “caratterizzato dalla perdurante e reciproca disponibilità a prestarsi ausilio”. Il ragionamento, in conclusione, è ben di più che deduttivo. Perché la corte d’appello di Catanzaro ha già stabilito, nell’ordinanza sulla ricusazione presentata dagli avvocati di Luigi Mancuso, che le due giudici si sono già pronunciate, con la sentenza “Nemea”, sul fatto che esista quella specifica associazione mafiosa e che Mancuso ne sia un capo, senza ombra di dubbio.

E lo ha stabilito usando indizi e prove esistenti anche nel “Rinascita Scott”. Processo in cui al fianco del boss, ma in funzione esterna, compare anche Giancarlo Pittelli, in rapporto confidenziale e strettissimo, “sinallagmatico” . Ruolo che l’avvocato calabrese non potrebbe svolgere se l’associazione non esistesse e se Luigi Mancuso non ne fosse il capo. Se tutto questo ragionamento ancora non convincesse i giudici della Corte d’appello di Catanzaro, ecco la corposa giurisprudenza della Corte Costituzionale e delle sezioni unite della Cassazione a supportare l’impianto dell’istanza di ricusazione. Ne sono convinte, del resto, le stesse due giudici Cavasino e Romano. Quale è dunque il motivo vero che le tiene incollate loro malgrado alle poltrone in quell’aula? La paura che il castello di carta del processo disveli il castello di carta di tutta l’inchiesta.

Avatar photo

Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.