Gli Inti-Illimani sono nella storia della musica, l’icona sonora di quel 1973 in cui l’Italia li ha scoperti e ha eletto il loro inno, El pueblo unido, canzone della solidarietà internazionale tra i movimenti di lotta. Incontriamo Jorge Coulón Larrañaga, fondatore degli Inti-Illimani, tornato a Roma per dare vita a una nuova tournée italiana. Il loro ultimo album, Agua, è uscito da pochi giorni: ci troviamo 28 brani inediti scritti e interpretati in un originale sodalizio artistico con Giulio Wilson.

Il cantautore toscano è tra i più impegnati in una generazione, quella dei trentenni, che ha orecchiato le canzoni degli Inti-Illimani in culla, nella sua Firenze, prima ancora di imparare a parlare. Il loro album Agua rappresenta un nuovo impegno per il gruppo andino: i temi della siccità, del climate change, della sostenibilità sono adesso centrali. I temi si uniscono a quelli dello sfruttamento e della disuguaglianza, che come ci spiega Jorge Coulón sono strettamente correlati alla siccità.

AGUA è un album di pura “concezione artigiana”, con gli strumenti tipici della musica andina a far colore – come la zampogna, la quechua, charango boliviano degli Inti-Illimani, il bombo, il cuatro venezuelano, il tres cubano – e con la chitarra e il pianoforte di Giulio Wilson; non sono contemplati suoni elettronici, plug-in, effetti elettronici. È dalla loro storia che vogliamo partire.

Avete scritto decine di canti militanti, El Pueblo Unido sta ai movimenti degli anni Settanta come Bella Ciao sta alla Resistenza. Cosa avevate pensato, scrivendola?
Avevamo provato a mettere in musica le parole della piazza, senza immaginare che di lì a poco le avrebbero cantate tutti. Parole e suono uniscono mente e cuore: quando le due cose vanno insieme, tutto funziona.

Ci racconta come nasce il vostro rapporto con l’Italia?
Nasce per caso, se il caso esiste. A fine luglio 1973 avevamo iniziato un tour in giro per il mondo. A inizio luglio arriviamo ad Hanoi, in Vietnam. Poi dovevamo stare alcuni giorni a Roma e subito dopo andare in Olanda. Ma l’11 settembre quando Pinochet realizza il colpo di Stato eravamo in Italia, e qui ci siamo fermati. Ha deciso il caso, ma su questo caso abbiamo costruito un rapporto fortissimo. Che dura ancora.

Come veniste a sapere del colpo di Stato? Immagino che fu uno choc.
Eravamo a Roma dove la sera dovevamo suonare alla Festa de L’Unità. Nel pomeriggio andammo in visita a San Pietro, decidemmo di salire sul posto più alto e più bello: dentro il Cupolone, da dove guardare Roma. E il cielo. Mentre eravamo lì, nel momento in cui pensi di avere toccato l’idea di pace con le dita, ecco che vediamo un ragazzo della Fgci di Roma, che ci stava accompagnando in città, che all’improvviso inziò a correre su per le scale, verso di noi. Aveva appena sentito che a Santiago il Palacio della Moneda era stato assediato e bombardato. E che Salvador Allende era morto. Noi non gli credemmo subito, era una cosa da non potersi credere. Scendemmo a cercare una cabina del telefono per telefonare alle nostre famiglie, a casa. Tutte le linee in Cile erano interrotte, capimmo allora che la nostra vita non sarebbe stata più la stessa.

E siete diventati un po’ italiani…
Siamo diventati cittadini del mondo. Abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare la cultura italiana e i suoi artisti, ci fu verso di noi una gara di solidarietà e una continua richiesta di concerti che non ci fece mai sentire soli.

Avete prodotto centinaia di canzoni in oltre trent’anni. Tra queste, alcuni inni veri e propri…
Non siamo partigiani di etichette. Facciamo contenuti di tipo sociale perché la musica nasce dalla società, la canzone popolare ha il diritto di parlare di tutte le emozioni popolari: facciamo canzoni per divertirsi e ballare, per emozionarsi e innamorarsi, ma anche per protestare e indignarsi. E per unirsi, in piazza. Ha tutto il diritto di esistere anche la musica di lotta. Come El pueblo unido che sì, è diventato un inno.

La Marsigliese, Bella Ciao, El pueblo unido sono canzoni che fotografano momenti storici.
Esattamente, la musica fa parte del popolo in marcia. E oggi c’è bisogno di rimettere in marcia le persone. In Cile nel 2019 c’è stata una rivolta popolare di giovani che ha scelto Pueblo Unido, scritta trent’anni prima, come suo inno. Questo ci ha fatto piacere.

Tre, quattro generazioni di vostri fan vengono a ascoltarvi nei concerti che continuate a fare, e che adesso riprendono con la tournée che lancia il nuovo album, Agua. La musica contribuisce a rendere le idee immortali?
Immortali non lo so, non lo possiamo dire. Diciamo che allunga molto la vita delle persone e delle idee.

Preoccupati del governo di destra in Italia, di Giorgia Meloni?
Siamo molto preoccupati della rinascita dell’estrema destra in tutta Europa. In Italia, in Spagna. E perfino nei paesi tradizionalmente socialdemocratici scandinavi. Sembra di essere tornati a un secolo fa, di rivivere le premesse di quell’incubo che ha poi preso corpo negli anni Trenta. Ma attento: il successo della destra è sempre una risposta della società agli errori della sinistra.

Qual è stato il principale errore della sinistra?
Andare a destra. Fuori dalla battuta, quando la sinistra inizia a fare concessioni sui principi fondamentali per ragioni elettorali e di politica contingente, cercando di allargare il suo consenso ai moderati, perde. Perché gli elettori alla fine preferiscono sempre l’originale. Tra due scelte conservatrici simili, finiranno per preferire la meglio conosciuta.

Il vostro ultimo album, Agua, punta l’attenzione sulla siccità, sul clima. Perché?
Sono preoccupato di chi non si preoccupa. Se manca l’acqua, finisce la vita. In Cile, il primo paese al mondo per presenza di bacini idrici in natura, tutta l’acqua potabile è privata. Abbiamo tantissimi ghiacciai e tanti fiumi, eppure l’acqua non è disponibile per tutti. I padroni dell’acqua oggi sono i padroni del mondo.

Una gigantesca contraddizione del capitalismo: la disponibilità di grandi risorse coincide con l’indisponibilità della loro fruizione.
Esattamente.

Anche i migranti che arrivano in Europa, superando un muro fatto di acque pericolose, cercano acque buone da bere. Altro tema, quello delle migrazioni, che è sempre più al centro della vostra musica.
Siamo artisti migranti da quando siamo nati. Ma parliamo del nostro tempo: se si guarda alle migrazioni climatiche, si capisce immediatamente che la ragione di fondo per cui le persone si spostano dal Sud del mondo al Nord del mondo è per mancanza d’acqua.

C’è siccità di acqua e in parallelo, siccità di idee, di impegno, di partecipazione. Così rimane a secco anche la democrazia.
Il grande male del nostro tempo è la concentrazione dei media: non sono più un modo per sviluppare dibattito ma un’arma che serve a modellare la vita della gente. E anche la rete, internet, è come l’acqua: se è libera e pulita fa bene, ma se è inquinata avvelena.

Come si fa a rimettere in marcia un “Pueblo unido”?
Difficile dirlo, non c’è una ricetta. Ogni tanto, nella storia, succede: il popolo capisce di doversi tornare a unire. Ci sono cicli. Serve che la politica parli di nuovo alla gente, faccia capire che è importante per le persone che ci sia una partecipazione democratica popolare.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.